Il mistero di Turandot
di Alberto Ponti
La grande incompiuta di Puccini rivela il suo lato più onirico e visionario con la regia di Poda e la direzione di Noseda
TORINO, 24 gennaio 2018 - Less is more. La formula che gli esegeti dell’interior design attribuiscono al genio architettonico di Mies van der Rohe pare concretarsi con singolare fortuna anche in un numero sempre maggiore di scene operistiche, vuoi per il gusto imperante di inizio millennio che aborrisce, non sempre a torto, qualsiasi accenno all’orpello, vuoi per esigenze di bilancio che impongono spesso drastici tagli all’apparato. Se poi intervengono fatalità come il disgraziatissimo incidente alla terza recita, con il ferimento di due coristi e la conseguente necessità di sospendere parte delle movimentazioni scenografiche, l’universo immaginato da Stefano Poda per la Turandot torinese, tutto giocato su certo fascino minimal, viene ad essere ancora più ridotto all’essenziale. Nell’ultimo capolavoro pucciniano la carta giocata dal regista trentino risulta tuttavia essere proprio quella giusta, pienamente calzante all’argomento orientale, già di per sé evocato senza malintesi dalla lussureggiante partitura dell’opera. Pazienza allora se il bianco accecante di palcoscenico e costumi, soprattutto nei primi due atti, ricordi l’epilogo di 2001: Odissea nello spazio. Altro soggetto (e altre musiche) accompagnano il gran film di Kubrick ma in comune con lo spettacolo del Regio vi è lo stesso finale aperto: scartato il dilemma tra Alfano e Berio, si termina con il corteo funebre di Liù e l’intera corte di Pechino, vestita per contrasto al resto del dramma in un elegantissimo total black, segue gli sguardi di Calaf e della principessa perduti verso il fondo della scena, voltando le spalle alla sala nel graduale estinguersi della luce. Il dualismo insanabile tra amore e morte diventa per un istante una cosa sola, proiettato verso altre rinascite, altri orizzonti, altre esistenze.
Molti figuranti affollano l’azione, con una coreografia dagli esiti grandiosi, sebbene le intenzioni di Poda mirino alla raffigurazione di un paesaggio tutto interiore: la sanguinaria principessa diventa una creatura di sogno, destinata ad apparire nel tumulto di una visione ludicissima e straniante.
Il fil rouge a cui si deve la riuscita dell’intero progetto risiede in primo luogo nella bacchetta di Gianandrea Noseda, assai acclamato al termine, sostenuto da una notevole prova dell’orchestra, attenta, compatta, mai sfilacciata, abile nel mettere in mostra gli influssi delle tendenze musicali più innovative dell’epoca ma evitando di chiedere a Puccini ciò che Puccini non può dare. Il compositore rimane inserito nel grande solco dell’opera e della vocalità italiana e, con buona pace di dissonanze, effetti percussivi, passaggi di profumo più o meno ‘stravinskiano’ che pure sono stati evidenziati da autorevoli analisi, predomina in ogni battuta l’inventiva melodica di chiarezza cristallina, poggiata su un’ossatura armonica originale e fascinosa ma priva di zone d’ombra sfacciatamente dissacratorie.
La compagnia di cantanti si conferma di rango, senza cedimenti: la Liù di Erika Grimaldi manifesta un’intonazione sopranile delicata, sensibile, rispettosa delle sfumature nella parte dell’estrema eroina pucciniana, superando con sincera commozione il banco di prova dell’aria del terzo atto "Tu che di gel sei cinta". Il tenore spagnolo Jorge de León tiene assai bene la scena, ricoprendo con baldanza il ruolo del principe ignoto Calaf, supportato da un timbro rotondo e gradevole, a suo agio nei declamati come nelle effusioni liriche di "Non piangere Liù" e del temibile "Nessun dorma". Turandot, impersonata da Rebeka Lokar, slovena, si distingue per potenza e sicurezza di emissione, perfetta per il vibrante sdegno nell’episodio degli enigmi, culmine dell’atto secondo.
Ottima per recitazione e canto la prova di Ping, Pang e Pong (nell’ordine Marco Filippo Romano, Luca Casalin e Mikeldi Atxalandabaso), essenziali nell’economia del lavoro, pendant sorridente alla piega più tragica degli eventi, debitori al Gianni Schicchi del Trittico. Convincenti e ben centrati paiono i personaggi di Timur (il basso In-Sung Sim), Altoum (il tenore Antonello Ceron) e il mandarino del baritono Roberto Abbondanza.
In una partitura che l’autore definì ‘il mio Parsifal’ un plauso speciale non può che andare al coro del Teatro Regio, vero e proprio motore di ogni avvenimento, superbamente istruito e diretto da Claudio Fenoglio.
Il vivo successo per ognuno degli intepreti è decretato da una platea sempre gremita dalla prima all’ultima rappresentazione.