Guillaume lent
di Giuseppe Guggino
Le celebrazioni per il 150esimo della morte di Rossini prendono avvio da Palermo con un’edizione molto sforbiciata eppure terribilmente lenta del massimo capolavoro del pesarese. Lo spettacolo di Damiano Michieletto, proveniente dal Covent Garden, pare non riuscire ad entrare pienamente in sintonia con le strutture del grand-opéra (o di quel che ne resta) in una lettura musicale pur intenzionalmente intrigante, ma costretta a fare i conti con troppe zavorre.
Palermo, 23 e 27 gennaio 2018 - Era dal lontano 1962 che la mela di Guglielmo Tell non si affacciava sulle scene del Massimo di Palermo ed è un segnale importante che, nonostante lo slittamento iniziale di mezzora comportato dalle solite beghe sindacali, vi abbia fatto ritorno. Ma altri due segnali importanti si possono cogliere in questa inaugurazione e ci suona strano che, seppur tra tante rivendicazioni più o meno condivisibili, non li abbia colti il comunicato dello sciopero. Intanto era dal Don Carlo di Visconti dell’Opera di Roma della stagione 2003, dopo il crac economico di oltre tredici milioni di euro, che il Massimo di Palermo non inaugurasse la propria stagione con un titolo non costruito in casa propria né in regime di co-produzione che, pur non promuovendo il know-how dei propri laboratori (invero poco impegnati nelle produzioni principali già dalla precedente stagione, e chiamati a produrre il primo nuovo allestimento del 2018 solamente a ottobre), almeno presuppone la corresponsabilità di un progetto artistico: insomma “da centro di produzione a centro di distribuzione”, come recitavano i comunicati sindacali di altri tempi. L’altro segnale importante è che, alle prese con un grand-opéra, pur essendo tra le cinque delle quattordici fondazioni lirico sinfoniche ancora (per quanto?) con un corpo di ballo a disposizione, si sia deciso di acquistare dalla ROH proprio uno spettacolo che non lo richiede.
Ma l’essere ormai fuori dal tunnel del risanamento e senza più tagli nel contributo FUS, sempre in crescita premiale negli ultimi anni, dissipa dalla mente ogni oscura perplessità. Per cui gli unici tagli alla cultura di cui non rimane che occuparsi sono quelli alla partitura, pur con il vezzo del ricorso filologico alla lingua originale e all’onerosa edizione critica; sì, perché non si arriva alla sedicesima battuta del primo numero che si balza alla 33, e poi dalla 511 alla 556. A Londra poi sopravviveva qualcosa del divertissement del primo atto mentre a Palermo invece soccombono interamente il Chœur dansé (No. 4) e sia il Pas de six sia l’alternativo Pas de deux (No. 5 e No. 5bis) mutuato alla prima assoluta dal terzo atto, per circa venticinque minuti di (grande) musica in meno: “centro di distribuzione in periodo di saldi”.
Non ci si duole troppo delle omissioni (che pure costano ancora oltre mezz'ora di altra grande musica) dell’aria di Jemmy nel terzo atto (No. 17-IIIbis), del trio (No. 18bis) e Prière di Hedwige (No. 19a) del quarto, sia perché storicamente avallati (dallo stesso Rossini) sia perché le abitudini del pubblico odierno e i paletti dei contratti nazionali e integrativi aziendali ne renderebbero oggettivamente complicata la praticabilità; idem dicasi dei tagli nelle ripetizioni dei numeri solistici, assolutamente condivisibili nel caso dei soprani a disposizione per Mathilde in entrambe le compagnie.
Così non può essere invece per la riduzione del No. 15 a sole 68 battute su 387, maldestramente saldate a una versione abrégé del Pas des soldat, peraltro piuttosto bolsa, perché vi fa le spese il Coro (che sotto la guida di Piero Monti in queste recite ha raggiunto livelli di assoluto rilievo) in un’opera corale, e perché così si tradisce la dimensione estetica stessa del grand-opéra, credendo erroneamente di renderla accessibile, e facendola in realtà impercettibile. Se, citando Fedele D’Amico, un Tell integrale può rapire l’attenzione dello spettatore più che in un’edizione tagliatissima, a Palermo s’è provato il viceversa del teorema.
Gabriele Ferro ripropone la sua lettura contemplativa, antiromantica, pastorale, già presentata con grande successo a Ginevra negli anni ’90. In quel caso però l’Orchestra della Suisse Romande gli consentiva fraseggi nervosi e articolazione del suono che rendevano compiuta questa intrigante prospettiva di saldatura tra il genere della tragédie lyrique e il grand-opéra romantico. Simile livello qualitativo si rintraccia in questa occasione nell’orchestra palermitana solamente nella sezione degli ottoni, riservando invece troppe imprecisioni tra i legni e qualche clangore con le percussioni forse a causa della buca non ribassata; disposizione che però che non giova alle nutrite file di archi poco sonori, diventati quasi una tradizione delle inaugurazioni di stagione (da correggere in vista di Turandot per il 2019 e Parsifal per il 2020) che, quando occasionalmente si sentono, per intonazione e compattezza, fanno rimpiangere l’insonorità.
La prospettiva antiromantica collide con il Guillaume di Roberto Frontali, che canta bene, al netto di qualche legnosità in alto, ma che segue la strada con il baritono verdiano come meta. In seconda compagnia è una sorpresa Davide Damiani che si applica al personaggio con grande duttilità e coerenza di risultati.
Dmitry Korchak al debutto con Arnold segna un passo importante e convincente della propria carriera, centrando il personaggio e rendendolo in tutte le sue difficoltà in maniera convincente quasi sempre, ad eccezione che nel duetto del secondo atto. Elemento compresente dei due cast è Enea Scala, pescatore timbricamente avaro alla prima e scavalcato alle repliche dal più pregevole Pietro Adaini, nonché Arnold muscolare in seconda ma con fastidiosi portamenti dal grave.
Per “Sombre forêt” e “Sur la rive étrangère” servirebbe la vaghezza timbrica e l’alta scuola del legato di una Mariella Devia, ma ci si è dovuti far bastare qualche terzina ritmicamente arruffata da Nino Machaidze e il vibrato rock di Salome Jicia: talvolta, parafrasando Calvino, anche la lentezza ha le sue ragioni.
Molto alto, per il resto, il livello della compagnia con Luca Tittoto semplicemente perfetto alle prese con Gesler, Marco Spotti impegnato in un Furst un poco torvo ma efficace, la sonora Enkelejda Shkoza collaudata Hedwige, il Melcthal molto ben cantato da Emanuele Cordaro, l’interessante vocalità di Matteo Mezzaro capace di emergere nei concertati di Rodolphe dove invece un po’ soccombe lo Jemmy di Anna Maria Sarra che però sa far valere altre frecce al suo arco, oltre ad affrontare quella del padre. Completa la distribuzione il Leuthold di Paolo Orecchia, il cacciatore Cosimo Diano e il Tell mimo aggiunto dalla regia di Damiano Micheletto, ben impersonato da Alberto Cavallotti. E qui sorge l’altra nota dolente di questo spettacolo, dal taglio deliberatamente anti-grandoperistico, volto a demitizzare l’eroe schilleriano ritraendolo come un padre di famiglia su cui il figlio Jemmy proietta le aspettative del personaggio conosciuto dai fumetti (proiettati nell’Introduction e nel temporale); da qui la figura del Tell storico che aleggia in scena come uno spettro motore dell’azione.
Tra le tante cose che non persuadono affatto di questa riscrittura drammaturgica (che, in fin dei conti, si mantiene fedelissima all’ordito di base) – e sono più d’una – c’è la non necessità in questo caso della surroga perché il Tell funzionerebbe benissimo (anzi meglio) se non lo pensassimo in questa chiave. Poi si dovrebbe proseguire con il fatto che, come annotava ancora D’Amico, nell’opera «la drammaturgia è lenta per il livello monumentale delle sue componenti, che vogliono essere contemplate a lungo» e l’imposizione di un ulteriore rallentamento comportato dall’azione bloccata al fermo immagine o quasi dei solisti mentre un deus-ex-machina mimo pianta frecce su tavoli di legno non è cosa che ci si sarebbe attesi dal rock Michieletto, uomo dal fiuto teatrale piuttosto smaliziato per non accorgersene. Se poi l’unico elemento della natura nella scena pur di grande effetto di Paolo Fantin, oltre all’albero (e basterebbe osservare il dettaglio dell’apparato radicale quando viene sollevato nel finale quarto per rivolgere ancora lodi ad uno dei migliori scenografi di oggi) è la nuda terra, non si capisce quale jour serein le ciel possa presagire in una non meglio precisata taverna illuminata da neon rettangolari. Lo spazio chiuso azzoppa un’opera come il Tell fatta di corni da caccia, rimandi di suoni in quinta, l’andantino del corno inglese nell’ouverture, il temporale, il rinnovato stupore per «au loin quel horizon immense!». E, vista la distanza ravvicinata con cui sono nati, qualcuno potrebbe rilevare come anche un altro allestimento recente del Tell si celebri sostanzialmente al chiuso; vero (ma non troppo), anche se quello riesce ad essere cruento, non anestetizza l’azione né la riduce essenzialmente ad uno stupro per uso e consumo della cronaca clamoristica dei quotidiani. Quello del pugno chiuso è rock, questo è terribilmente lento nei suo infiniti ricami teatrali persino troppo cerebrali (l’albero sradicato nel finale primo che torna ingigantito nel secondo e terzo atto per poi volare al quarto, venendo ripiantato al proscenio, le scatole dei ricordi di Arnold e Mathilde, lo spettro di Melcthal nel duetto Arnold-Guillaume e nel terzetto del secondo atto). È lento nel giuramento, dove manierato si fa l’uso del girevole e rinunciatario lo schieramento indistinto degli abitanti d’Unterwald, Schwitz e Uri e dove non accade assolutamente nulla (una tra le tante differenze nel rimontaggio palermitano dello spettacolo rispetto all’originale versione andata in scena a Londra); lo è anche nel riporre troppo nell’uso delle luci (per inciso, stratosferiche) di Alessandro Carletti.
In linea i costumi di Carla Teti con l’idea generale di questo Guglielmo lento o – per meglio dire, col vezzo filologico della lingua originale – Guillaume lent.
foto Rosellina Garbo