Braci ardenti
di Andrea R. G. Pedrotti
L'allestimento intelligente, psicologicamente raffinato e ricco di dettagli di Graham Vick coglie alla perfezione lo spirito di Manon Lescaut ed è il punto di forza di questa prima veronese, penalizzata dall'indisposizione della protagonista, Amarilli Nizza.
VERONA, 4 marzo 2018 - Giacomo Puccini ha un gran difetto: anche in un pomeriggio sfortunato, la sua perfetta orchestrazione e la sua capacità comunicativa non possono che coinvolgere lo spettatore in una catarsi fatta di ricordi fatti di gioia e serenità, così come di rimembranze dolorose.
Manon Lescaut resta, a parere di chi scrive, la sua opera più riuscita, perché in essa ritroviamo pienamente un autore che (anche pensando alla sua biografia) sapeva comprendere le donne come nessun altro. Forse non si comportava da galantuomo con loro, ma sapeva cogliere la loro essenza più profonda e la riverberava sul pentagramma. In Manon Lescaut è presente una costante vibrazione, magnete d'attrazione irresistibile dell'animo: una carica elettrica che calamita e col suo fascino accentra l'attenzione, quella forza sottilmente nevrotica che diviene isteria e disordine quando il fuoco esplode dalle braci ardenti sotto la cenere.
La regia di Graham Vick coglie proprio il sottile crescendo che porta l'animo femminile al disordine e lo fa concatenando in sequenza le fasi della maturazione dell'autodistruzione dell'eroina pucciniana. Il primo atto si svolge in una scuola, un collegio a prima vista, dove i giovani Des Grieux (giustappunto studente) e la quindicenne Manon si incontrano. Le fasi che portano al maturare del loro sentimento sono descritte man mano sull'ardesia di una grande lavagna. I due si conoscono e quando decidono di fuggire assieme, il rigore dello studio, come la quiete prima della tempesta del sentimento, diviene un parco giochi e, come in un sogno immaginario di due amanti adolescenti, entrambi salgono sui cigni del tunnel dell'amore del Luna Park e fuggono da Geronte, il vegliardo che bramava approfittarsi delle grazie della fanciulla col viatico del conio, e da Lescaut, il fratello che del corpo di lei faceva mercimonio.
Intrigante anche il secondo atto, quando qualche fiamma della brace del disordine insito nell'animo di Manon comincia a palesarsi. Ella è mantenuta nella casa di Geronte, le viene offerta cocaina, mentre altri si approfittano di lei sotto lo sguardo di chierici compiacenti. La casa di Geronte è come un grande dipinto rosso vermiglio, figurante le nudità di un corpo femminile. Qui giunge Des Grieux arrogandosi il diritto di redimere una donna senza chiederle il consenso, con fare tipicamente maschile. Tuttavia il ragazzo che tenta di ritrovare la sua Manon ne accelera solo la fine, poiché ella è ormai schiava della semplicità con cui le veniva concesso il bene voluttuario, insolente con lui, quanto con la senilità di Geronte. Così avviene l'arresto.
Terzo atto, come di tradizione, su un pontile, con Manon nel mezzo delle prostitute destinate alla deportazione nelle Americhe. L'idea interessante, in questo quadro, è presentare Manon, mesta, a dondolarsi incatenata su un'altalena, quasi a rammentare che, nonostante l'accaduto, in lei alberga ancora la fanciullezza della giovinetta del primo atto. Il quarto e ultimo atto, invece, è tragica conclusione dell'intero dramma; finora, infatti, la vicenda si era sviluppata su una pedana che modificava il suo posizionamento di quadro in quadro: a metà altezza nel primo, leggermente più in basso nel secondo, molto in alto nel terzo, anche per favorire l'imbarco. Una condizione di tranquillità al principio, il precipizio verso le bassezze nel secondo e la partenza definitiva nel terzo. Nel quarto atto la pedana non c'è più: Des Grieux e Manon sono in una voragine arida, mentre le bianche pareti del collegio del primo atto fanno ancora da fondale: giovani studenti osservano la fine di Manon, come se questa fosse stata una grande lezione di morale. Di grande effetto emotivo il gesto di una studentessa sugli ultimi accordi, allo spirare della protagonista: la ragazzina prende un nastro colorato e lo getta noncurante, indifferente, sulla salma esanime. Così termina l'opera.
Per quanto concerne la compagnia di canto, il mezzo vocale di Gaston Rivero (Des Grieux) appare certamente interessante; purtroppo il tenore tende a gonfiare troppo spesso i suoni e lo squillo in acuto ne risulta impoverito. Belli i gravi, anche se disomogenei rispetto al registro centrale. Indipendentemente dalle mende tecniche ciò che risulta latente nella prova di Rivero sono espressione e fraseggio. Des Grieux non appare affatto interessato a Manon, sovente la ignora, si allontana da lei concentrandosi sul canto. Il protagonista maschile dell'opera ha a sua disposizione alcune delle frasi più struggenti e passionali dell'intero melodramma. Pensiamo solo al secondo atto, a frasi come “Taci... tu il cor mi frangi” o “O tentatrice! È questo l'antico fascino che m'acceca!”, col protagonista, che dovrebbe soffrire di passione amorosa per l'autodistruzione dell'amata, a mettersi in posizione a pronunziar le parole con un fraseggio anodino, quale raramente ci è capitato d'ascoltare.
Migliore del cast il Lescaut di Giorgio Caoduro, preciso, espressivo tecnicamente affinato, oltre che attore efficace e partecipe.
La locandina era ben completata da Romano Dal Zovo (Geronte de Ravoir), Andrea Giovannini (Edmondo), Giovanni Bellavia (L'oste/Sergente degli arceri), Alessia Nadin (Un musico), Bruno Lazzaretti (Un lampionaio/Il maestro di ballo), Alessandro Busi (Un comandante di marina).
Bene la concertazione di Francesco Ivan Ciampa, che dirige con mestiere e precisione la partitura pucciniana. Forse sarebbe stata preferibile qualche sfumatura interpretativa più definita, ma, nel complesso, possiamo considerare la sua prova corretta e diligente, quindi positiva. L'orchestra suona bene e il magnifico intermezzo ottiene l'ovazione che questa pagina strumentale merita per la bellezza della scrittura e per l'intensità che il compositore le ha saputo magistralmente conferire.
Si fa apprezzare, come spesso accade, anche il coro della Fondazione Arena, diretto da Vito Lombardi.
La regia, come detto, era di Grahm Vick (ripresa da Marina Bianchi), le scene di Andrew Hays, i costumi di Kimm Kovac, le splendide luci di Giuseppe Di Iorio, i movimenti mimici di Ron Howell (ripresi da Danilo Rubeca).
Non ci sentiamo di dire alcunché circa la prova della protagonista, Amarilli Nizza, se non augurarle al più presto una pronta guarigione. Fra gli eventi del pomeriggio non possiamo trascurar di citare, infatti, un intervallo di circa un'ora, al termine del quale il sovrintendente della Fondazione Arena, Cecilia Gasdia, ha annunciato le precarie condizioni di salute della signora Nizza, che ne hanno pregiudicata la prestazione, e la disponibilità della cantante ad affrontare gli ultimi due atti, nonostante un mancamento nella pausa causato dall'aggravarsi di una violenza forma influenzale. Vista la situazione, forse sarebbe stato forse consigliabile affidare il ruolo all'interprete del secondo cast (Francesca Tiburzi), anche considerato che Manon Lescaut è, in sostanza, un lungo duetto d'amore fra tenore e soprano, in questo caso mutilo della protagonista femminile.
foto Ennevi