Di quegli occhi veder la fiamma
La stagione lirica del Teatro Grande di Brescia si apre con una bella edizione di Tosca. La concertazione di Valerio Galli e la regia di Andrea Cigni, probabilmente, avrebbero potuto sciogliere anche le riserve di Mahler sul dramma pucciniano; nel cast spicca il Cavaradossi di Luciano Ganci.
BRESCIA, 28 settembre 2018 - Una delle grandi problematiche dell’oggi è senz’altro legata all’affrettarsi nel leggere parzialmente i testi. Accade persino nelle più illustri accademie di studi il malcostume di limitarsi a passi scelti da determinati autori, senza prendersi la briga di studiare integralmente le fonti. Il rischio è quello di tradire il testo e travisarne il contenuto. Quante volte capita di trovare sparpagliate citazioni, che divengono slogan, fino a perdersi nella vacuità o nell’errore. Un procedimento socioantropologico che autoconfina le genti nella condizione del partito esterno, per dirla alla Orwell. Accade di sentir definire Arthur Schopenhauer (noto misantropo, misogino e personaggio dall’aggressiva asocialità conclamata) come un uomo dolce e sensibile solo perché si dimostrava amante degli animali, ma senza considerare che questa sua affermazione era derivata da un odio verso gli uomini. Allo stesso modo, la vulgata di improvvisati studiosi si ostina ad affermare che Gustav Mahler fosse uomo avverso all’intero catalogo pucciniano, solo perché, nel 1903, in una lettera alla moglie Alma (quindi a una persona presumibilmente in discreta confidenza con lui) aveva criticato l’impianto drammaturgico (non musicale) di Tosca. Tutti sappiano come “l’uomo di genio”, secondo la definizione che Siegmund Freud dette di Mahler, fosse una figura dal carattere complesso, nevrotico e ossessivo, ma raramente sbagliava. Sicuramente la terminologia dell’epistola è colloquiale (parla alla moglie d’altra parte), ma, se si ha la pazienza di leggerla per intero, si comprende l’acume dell’osservazione di Mahler, un acume sovente criticato, ma al quale, purtroppo, hanno di rado saputo dar torto i fatti.
Effettivamente la partitura di Puccini, sebbene mai parco di indicazioni, aiuta ben poco a conferire unità e una linea drammaturgica equilibrata a una vicenda piuttosto schematica, celere nel suo svolgimento, ma che passa da momenti di estrema intimità, ad altri (il Te Deum) assai intensi non solo nella teatralità, ma anche nei volumi orchestrali e nell’impiego di masse artistiche.
Di fronte all’azzimato pubblico bresciano, accorso assai numeroso al Teatro Grande per questa inaugurazione, il regista Andrea Cigni riesce a trovare l’escamotage che gli consente di offrire fluidità al dramma.
Cigni sfrutta abilmente l’angusto palco bresciano spezzandolo in due parti; un fondo utilizzato pochissimo nel primo atto - quando e che funge da chiesa vera e propria, mentre il proscenio è la cappella -, per niente nel secondo atto - quando la divisoria è la parete dello studio di Scarpia - fino ad aprirsi nel terzo, rivelando la spazialità delle terrazze di Castel Sant’Angelo.
I movimenti sono tradizionali, curatissimi in ogni dettaglio e fedeli seguaci del testo di Illica e Giacosa, mentre splendide sono le luci, utili a sottolineare la semantica emotiva del momento. Particolarmente suggestiva una luce rossa, parimenti all’abito di Floria Tosca, alla tinta del sangue e alla fiammeggiante passione degli occhi che Scarpia non poté “illanguidir con spasimo d’amor”. Allo stesso modo i colori scuri, oscillanti fra il nero e il blu di una notte romana senza stelle, offrono l’immagine della morte imminente dei due amanti.
Fra gli interpreti primeggia Luciano Ganci, ormai consacrato fra i tenori italiani di spicco del panorama lirico contemporaneo. Il suo è un Mario Cavaradossi impeccabile tecnicamente, passionale nel fraseggio, sia nell’elegia, sia nell’impeto. Veemente attore non si risparmia nemmeno nei pochi interventi a lui riservati durate il secondo atto. Imperiosa la sua esecuzione del “Vittoria!”, intensa quella di “E lucevan le stelle”.
Accanto a lui troviamo la passionale Floria Tosca di Virginia Tola, la quale, nella lettura del personaggio, non sceglie di rimarcare sicumera e alterigia, ma porta sul palcoscenico una donna più umana, comprensibilmente disperata per la sorte che sta attendendo lei e l’amato, che compie i delitti non per furia, ma perché nessun’altra strada le è rimasta. Questa strada è coerente sia con i versi di Illica e Giacosa, sia con la scelta della protagonista di porre volontariamente fine alla propria esistenza, gettandosi dai bastioni di Castel Sant’Angelo. Sebbene il mezzo vocale non abbia più lo smalto d’un tempo, la sua prova risulta convincente, grazie a un fraseggio ardente e a una prova scenica di rilievo.
Un passo indietro il Barone Scarpia di Angelo Veccia, buon attore e attento fraseggiatore, ma meno convincente dal punto di vista vocale. Il suono appare troppo chiaro e le variazioni cromatiche, seppur ricercate, non sortiscono l’effetto sperato. L’emissione è corretta, ma la proiezione appare limitata dall’usura dello strumento. Veccia, comunque, grazie all’esperienza, riesce a portare a termine il ruolo senza demeriti particolari. Una prova sufficiente, nulla di più.
Fra i comprimari giganteggia il sagrestano di Nicolò Ceriani (che già avevamo ascoltato nel ruolo in un secondo cast areniano del 2015): attore eccelso, grazie anche alla sua grande esperienza nell’operetta, si conferma fra i migliori artisti nell’interpretazione di ruoli da caratterista.
Al contrario risulta negativa la prova di Nicola Pamio (Spoletta), assai carente nell’intonazione e insufficiente nel fraseggio delle poche frasi affidate al suo personaggio.
Completavano il cast Luca Gallo (Cesare Angelotti) e Stefano Cianci (Sciarrone).
Eccellente la direzione di Valerio Galli, che, da gran conoscitore del repertorio pucciniano, comprende appieno ogni dettaglio della partitura. Le scelte dinamiche sono appaganti e le incalzanti dinamiche coerenti con la drammaturgia dell’opera. Nonostante la vibrante intensità della concertazione, le voci sono sempre seguite al meglio e l’unità fra le sezioni risulta impeccabile. Da sottolineare l’ottima prova degli ottoni dell’orchestra dei Pomeriggi musicali di Milano.
In gran forma il coro OperaLombardia, diretto da Diego Maccagnola, parimenti al coro di voci bianche “I piccoli musici”, diretto da Mario Mora.
Per la parte visiva, accanto ad Andrea Cigni, ricordiamo Dario Gessati (scene), i bei costumi di metà ottocento (la vicenda era trasposta di una sessantina d’anni rispetto al 1801) firmati da Lorenzo Cutùli e splendide luci di Fiammetta Baldisserri.
Al termine gran successo per tutti, in una serata che ha saputo rimarcare la vera unità drammatica dell’opera di Puccini, che trova nella passione erotica, amorosa e rivoluzionaria il suo autentico filo conduttore, a partire dal nero degli occhi di Tosca, di cui Scarpia ambiva possedere la fiamma, passando dalla fremente rimembranza di un amplesso cantato da Cavaradossi, fino alla travolgente intensità di Eros e Thanatos. La Tosca vista nel 1903 a Mahler non era piaciuta; se avesse potuto assistere all’idea registica di Andrea Cigni e alla concertazione di Valerio Galli, probabilmente, il suo giudizio sarebbe stato differente.
foto Reporter Favretto