Tempo d'autunno, gioia negli occhi, dolore nel cuore
di Irina Sorokina
L'allestimento ormai storico di Robert Carsen interpreta alla perfezione lo spirito dell'opera di Čajkovskij. Un cast senza grandi star svela punte di eccellenza e una cura rara per il testo anche fra i non madrelingua.
Toronto, 10 ottobre 2018- Tre cose hanno coincise in questa magnifica giornata a Toronto: i colori accesi dell’autunno canadese, l’amore ben noto del grandissimo poeta russo Aleksandr Puškin per questa stagione, le atmosfere magiche e nostalgiche dell’allestimento del regista canadese Robert Carsen dell’opera più amata dai russi, Evgenij Onegin di Čajkovskij, ispirata dall’omonimo romanzo in versi dello stesso Puškin. I colori rosso, giallo e arancione tipici del cosiddetto “autunno dorato” russo, che si vedevano fuori dalle pareti di vetro del Four Seasons Centre for the performing arts di Toronto, sono gli stessi colori scelti dal designer Michael Levine per raccontare più storie di amori irrealizzati e irrealizzabili.
L’allestimento di Robert Carsen creato nel 1997 per il Metropolitan Opera di New York conta ormai ventun anni. È stato riproposto dallo stesso teatro nel 2007 con Dmitri Hvorostovski e Renée Fleming e un anno dopo rappresentato dalla Canadian Opera Company. Riappare a Torondo nella stagione attuale ed esercita ancora un grande fascino. Può definirsi eternamente giovane, gli anni passano senza lasciare tracce e il cast, anche senza celebrità del calibro di Hvorostovsky e Fleming, risulta convincente e coinvolgente.
Nella critica letteraria classica russa il romanzo di Puškin viene definito come “l’enciclopedia della vita russa”, ovviamente quella degli anni ’20 dell’Ottocento. A distanza di circa duecento anni, al cuore del lettore devoto risultano più care le storie d’amore del giovane poeta Lenskij per la frivola Olga, della fanciulla dall’animo nobile e puro Tat'jana per il freddo dandy Onegin, e, alla fine, dell’Onegin ormai maturo per Tat'jana che negli anni si è trasformata da un’umile ragazza di campagna in una nobile dama della sontuosa corte pietroburghese, una donna sposata a un generale ferito in battaglia. Proprio così, sono tre storie d’amore, tutte irrealizzate ed irrealizzabili, al centro del romanzo puškiniano.
Per questo Robert Carsen, in perfetta sintonia col designer Michael Levin, non pone l’accento sui dettagli dell’ambientazione della vicenda tanto umana, tanto commovente. Non spende tempo prezioso per mettere sul palcoscenico una casa di campagna dove vivono due sorelle con la madre e la nutrice o una sala lussuosa di un palazzo pietroburghese. I tronchi degli alberi ed il suolo coperto di foglie colorate disegnano la pacifica campagna russa, e qualche mobile elegante fa capire subito che l’azione si svolge in una sala da ballo della capitale dell’impero. Una linea, un colore, due linee, tre colori. Basta così. L’allestimento risulta asciutto, austero e astratto. Per il resto ci pensa il light designer Jean Kalman, il cui contributo nella riuscita dello spettacolo è decisivo. Dal caldo color arancione del primo quadro al grigio perlaceo dell’ultimo: le luci disegnano un percorso di vita.
Il giovane cast dell’attuale ripresa canadese dimostra di essere all’altezza di un compito piuttosto arduo. Non si tratta tanto della scrittura vocale čajkovskiana, che non è tra le più facili, quanto della lingua russa, che da sempre presenta una grande difficoltà per gli interpreti occidentali, essendo dotata di grande musicalità ma piuttosto insolita per l’orecchio non allenato. Se capita che in teatro sia presente qualche persona di madrelingua, le arie famose e soprattutto i recitativi destano i sorrisi che a volte si trasformano in risate. Tutti gli interpreti di questo Onegin hanno felicemente evitato i sorrisi ironici dei madrelingua, presenti numerosi in teatro, fatto che testimonia l’enorme lavoro da loro svolto. Certo, l’accento si è sentito sempre, ma nei limiti accettabili. Chapeau!
È significativo che Čajkovskij avesse voluto chiamare le sue “scene liriche” col nome della protagonista femminile che è, in realtà, il vero centro delle sue attenzioni drammaturgiche e musicali. Alla fine preferì intitolare la sua creazione come il romanzo di Puškin. In ogni caso, l’animo nobile di Tat'jana ovunque prevale sopra quello tormentato di Onegin e ci vuole una grande personalità artistica dell’interprete del ruolo del protagonista maschile per rendere due personaggi pari agli occhi del pubblico.
Nel compito difficile di tenere testa alla dolce Tat'jana, riesce perfettamente il giovane baritono canadese Gordon Bintner che ha un ottimo physique du rôle ed il portamento signorile necessari per il ruolo di Onegin, ma è capace anche di disegnare il personaggio ricco interiormente e in un’evoluzione quasi incredibile. Possiede un timbro gradevole e chiaro, linea di canto morbida, grande musicalità e fraseggia saggiamente.
Joyce El-Khoury nel ruolo di Tat'jana è magnifica, lucente, commovente. Sembra essere nato per impersonare la fanciulla russa, il soprano canadese, così dolce, grazioso, umile e poetico; si muove con un’estrema naturalezza, mostrando la bellezza irresistibile del volto e dell’anima nello scrivere la coraggiosa dichiarazione d’amore ad Onegin,nel chinare la testa e cadere in ginocchio in seguito alla sua fredda predica, per poi abbandonarsi sulla poltrona con la lettera di lui, che una volta fu indifferente ed ora è innamorato. Una vera donna russa, si direbbe. Il suo canto è pari alla sua interpretazione del personaggio; la voce è sana, salda, squillante e ben proiettata, l’accento è impeccabile e pressappoco anche la pronuncia.
Il tenore Joseph Kaiser risulta meno affascinante e decisamente meno poetico del personaggio di Lenskij come viene rappresentato secondo la tradizione russa che parte da Leonid Sobinov passando per Sergey Lemešev ed Ivan Kozlovskij per arrivare a Vladimir Atlantov e oltre. Non troppo attraente, risulta a tratti irruente e goffo, fino a creare la sensazione di un certo disagio nello spettatore. Così è il primo assolo, “Ja ljublju vas” (“Vi amo”), che suona un tantino esagerato, se non caricaturale. Si riscatta in pieno successivamente, quando il suo personaggio acquista toni realmente tragici e il poeta giovane e ingenuo si scontra prima con il comportamento scorretto di Onegin e subito dopo con la scelta dell’amico di seguire le convenzioni sociali, non rinunciando al duello. La celebre aria “Kuda, kuda vy udalilis’” (“Dove, dove siete andati”) rivela nel tenore un raffinatissimo musicista, capace di creare la linea di canto sottilissima e colpire dai filati quasi al limite del possibile.
Il mezzosoprano armeno Varduhi Abrahamyan è perfettamente a suo agio nel ruolo di un’Ol'ga superficiale e civettuola, senza trascurare qualche leggero cenno drammatico nella scena di ballo. La voce è importante, ampia, dal colore brunito e dalla linea di canto incantevole.
Oleg Tsibulko nella parte del principe Gremin, marito di Tat'jana, crea un personaggio indimenticabile di nobile generale e gentiluomo, intonando una sola aria, in cui conquista il pubblico con il suo legato impeccabile e il fraseggio elaborato.
Il cast convincente è circondato da un ensemble di comprimari davvero brillanti tra cui si distinguono per una grande padronanza di stile e credibilità scenica Helene Schneiderman - Madame Larina, Margaret Lattimore – la nutrice Filipevna e Christophe Mortagne – monsieur Triquet. Sono corretti il capitano di Samuel Chan e Zareckij di Joel Allison.
L’orchestra guidata da Johannes Debus risulta in forma perfetta, affascina con colori brillanti e sfumature raffinate.
La sottile sofferenza, senza motivi apparenti, che presentano molti protagonisti della grande letteratura russa, è difficilmente comprensibile per i lettori occidentali. Due artisti sono riusciti a capirla e trasmetterla nei loro capolavori, anche se entrambi provenienti da paesi e culture tanto lontani dalla Russia: il coreografo sudafricano John Cranko, creatore del balletto Onegin ed il canadese Robert Carsen, regista di questo allestimento ormai storico dell’opera čajkovskiana.
“Osennjaja pora, očej očarovan’e”, “tempo d’autunno, gioia per gli occhi”.
foto Michael Cooper