Da donna a donna
Il dittico La voix humaine/Cavalleria rusticana concepito al Teatro Comunale di Bologna e affidato alle cure di Emma Dante si inserisce nel circuito OperaLombardia, con prima tappa al Teatro Fraschini di Pavia.
Pavia, 17 novembre 2018 – Donne abbandonate, donne tradite, vittime dell’amore che nell’universo grandioso dell’opera muove ogni cosa. Seppur in svariate accezioni, in fondo, il melodramma romantico, custode della fievole fiammella ereditata dalla tragedia, parla spesso di questo. Non sono dunque i punti di tangenza delle due trame a giustificare le nozze tra La voix humaine e Cavalleria rusticana: la gelosia, anima delle due narrazioni, è solo il punto di partenza di uno sviluppo drammaturgico che invero attinge più al contesto in cui sono immerse le vicende che alle ragioni delle vicende stesse. E contrariamente a ogni pronostico, nella diversità delle circostanze, gli esiti possono essere considerati persino beffardi. Elle vive in una cornice di respiro sfacciatamente moderno dove la visione di una donna che si realizza esclusivamente nella figura di un uomo è ormai superata; Santuzza invece si confronta con un ambiente fortemente maschilista e retrogrado in cui solo l’onore costituisce il solo canone inviolabile nell’evolvere quotidiano. Eppure la prima si annienta mentre l’altra, non senza sacrificio, trova in qualche modo una forma di riscatto.
L’accostamento, dunque, più che scandito da esigenze strettamente filologiche, sembra non essere altro che la somma di due considerazioni abbastanza commerciali: la prima, del tutto opinabile, lega con una diretta proporzionalità il valore di una serata alla sua durata; la seconda, apprezzabilissima, risponde alla tendenza di proporre un’alternativa alla coppia di fatto dell’opera italiana, magari accostando a spettacoli “di nicchia” titoli di repertorio come contrappeso o traino in termini di popolarità (e a confermare tale ipotesi interviene anche l’ordine con cui i due capolavori vengono proposti: La voix andrebbe eseguita dopo Cavalleria e non prima per agevolarne l’ascolto). In quest’ottica il dittico concepito dal Teatro Comunale di Bologna e ora errante nel circuito di OperaLombardia, con prima tappa al Teatro Fraschini di Pavia, si presenta semplicemente come l’occasione per godere di due spettacoli piuttosto slegati, sotto il profilo teatrale e musicale, che nella bellezza della loro isolate parentesi trovano tutte le motivazioni per essere seguiti. Solo la cronaca della regista, che, da donna a donna, esplora e approfondisce il mondo femminile e le sue molteplici sfaccettature, tesse un sottile fil rouge in un discorso incanalato alla fine su sentieri differenti.
Sebbene in entrambi i lavori sia chiaramente distinguibile la calligrafia di Emma Dante, invero sempre attenta al sostrato psicologico dei personaggi, nella Voix humaine il racconto della regista palermitana stabilisce un profondo legame con il testo di Cocteau-Poulenc e conferisce forma a quel tormentato flusso di coscienza intorno a cui l’opera prende vita. In quell’alloggio dove la narrazione si muove sul crinale tra realtà e immaginazione, mescolati in una visione onirica di straziante impatto drammatico, tutto è appeso a un filo, quello del telefono. Un filo che non è solo l’ultimo legame con il proprio amante, bensì l’emblema di un raziocinio ormai reciso, spezzato, proprio come quel filo interrotto che isola la protagonista in uno stato di solitudine e incoscienza asfissianti: le pareti si avvicinano, le luci si abbassano, la camera si trasforma lentamente in una stanza d’ospedale e i fantasmi del passato si manifestano, non meno sadici di medici e infermieri, quasi la Dante volesse sottolineare la colpevolezza dell’autodistruzione nella quale Elle si sta lasciando morire. Nessuno meglio di Anna Caterina Antonacci può esprimersi in una dimensione dai contorni così evanescenti, la sua Elle è semplicemente sublime. Carisma da vendere, fascino irresistibile e sensualità innata si fanno largo in una monologo dalle screziature più variegate dove convivono arrendevolezza e impeto, gelo e fuoco, il tutto declinato a mezzo di una carica attoriale eccezionale che non sovrasta mai la raffinatissima musicalità, ma la sostiene per un risultato complessivo senza termini di paragone. E se la direzione musicale, da un lato, sembra aver limitato le potenzialità di un’artista insuperabile in questo repertorio (come confermato quest’anno dalle prove alla Scala e al Regio di Torino), non si riesce mai a immaginare un’interprete migliore capace di reggere, per circa un’ora, il peso e la responsabilità di un intero spettacolo.
In Cavalleria rusticana Emma Dante raccoglie invece molti termini dal suo vocabolario teatrale, in parte già esperiti in altre occasioni (Macbeth a Torino e Palermo, Eracle di Euripide a Siracusa e Pompei), per confezionare una produzione dalla sicilianità ammiccante e quasi oleografica di cui si intuisce l’essenza senza sbandierarne l’evidenza. L’introspezione psicologia del capitolo precedete lascia infatti spazio a un citazionismo più sottile e pregno di efficace simbolismo dai quali scaturisce una lettura in cui si intrecciano differenti livelli di interpretazione, non sempre facilmente districabili. È senza dubbio l’analisi della componente religiosa l’elemento più caratteristico di questo allestimento, descritta inseguendo un taglio spettacolarizzante che sottintende forse la pomposità di certi riti liturgici molto diffusi al sud. Così la Dante accenna alla chiesa con un tendaggio che ricorda il padiglione di un circo – con tanto di crocifisso luminoso – e la processione della Via Crucis, più volte ricorrente, offre un parallelismo tra realtà e mito religioso: dopo l’anatema, Santuzza, come Simone da Cirene, aiuta Cristo a portare la croce e sul finale mamma Lucia è accostata alla Madonna, in una sorta di tableau vivant, nel dolore della perdita. Un siffatto processo di divinizzazione allude sicuramente alla forte compenetrazione tra sacro e profano ma pesca, in parte, anche nella cifra stilistica propria della regista palermitana (un espediente simile occorre ad esempio nel finale primo del Macbeth, quando il re Duncano, dopo l’assassinio, è esposto proprio come Gesù sul Calvario).
La compagnia vocale è ben assortita. Teresa Romano affronta Santuzza incarnando la figura di una donna fiera, verace, purtroppo schiacciata dalla pesantezza del contesto sociale. La voce sfoggia nei centri un volume e una robustezza ragguardevole ma il timbro in alto si fa un po’ querulo. Al netto di qualche piccolo inciampo, Samuele Simoncini, già apprezzato per compostezza nel ruolo di Manrico nel Trovatore al Regio di Torino, tratteggia un Turiddu piuttosto incisivo. Meno intenso l’Alfio di Mansoo Kim, corretto sotto il profilo vocale ma meno generoso nella costruzione del personaggio. Francesca di Sauro è una Lola bamboleggiante e sinuosa, una sorta di femme fatale del secolo scorso, mentre Giovanna Lanza rivela il lato più austero di Mamma Lucia.
Qualche riserva invece nella prova di Francesco Cilluffo alla guida dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali di Milano. Se nella Voix il direttore procede con passo incerto, proponendo una concertazione che smussa le angolosità della partitura di Poulenc, nel territorio verista viene meno l’equilibrio tra le sezioni, specie negli interventi degli ottoni, eccessivamente protagonisti. Al di là di quest’osservazione, tuttavia, risultano convincenti l’accentazione del febbrile momento drammatico, le dinamiche ovunque ben proferite e il tessuto agogico intarsiato con un bel cesello ritmico. Ottima la prova del Coro OperaLombardia istruito dal maestro Diego Maccagnola. Una menzione a parte è dovuta agli attori della compagnia teatrale di Emma Dante, punto di forza dei suoi spettacoli, impegnati nelle coreografie di Manuela Lo Sicco. Belle e curate, in entrambi gli allestimenti, le scenografie di Carmine Maringola, i costumi di Vanessa Sannino e le luci di Cristian Zucaro.
foto Valeria Santambrogio