L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Scala, Strauss senza eccesso

di Francesco Lora

Ripresa di Elektra nell’allestimento di Chéreau, fatto di essenzialità, equilibrio ed eleganza. Rifomulata rispetto al 2014, la locandina musicale va dalla giusta cautela del concertatore Stenz (subentrato in corsa a Dohnányi) all’equilibrio di spessori anomali tra le tre donne: Merbeth, Meier, Hangler.

MILANO, 18 novembre 2018 – La regìa di Patrice Chéreau per Elektra di Richard Strauss, sua ultima lettura per il teatro lirico, è un capolavoro di essenzialità, equilibrio ed eleganza. Ma forse questo non è il complimento calzante per un’opera mirata, fino all’eccesso, alla saturazione delle immagini, alla tensione delle relazioni e alla violenza degli affetti. Messo a punto nel 2013 a Milano e poi creato ad Aix-en-Provence, con le scene di Richard Peduzzi e i costumi di Caroline De Vivaise, lo spettacolo era arrivato al Teatro alla Scala nel 2014. Nel riassistervi quattro anni dopo (sette recite dal 4 al 29 novembre) le prime impressioni si acuisono, causa una locandina musicale quasi tutta riformulata ma senza la speciale esperienza goduta dai precursori. Fin troppo moderata rimane la restituzione dei rapporti tra la protagonista e la madre Klytämnestra, la sorella Chrysothemis e il fratello Orest; fin troppo moderata rimane la definizione psicologica dei singoli, ora contaminata da apporti personali estranei alla poetica di Chéreau. Si rimane delusi nel cercare uno bilanciamento drammaturgico che distingua la lettura, precisi un concetto e scaldi il pubblico: ciò che, per esempio, rispondeva puntualmente all’appello nelle regìe di Klaus Michael Grüber e Guy Joosten, riviste di recente a Napoli e Bologna. Un teatro con le responsabilità culturali della Scala dovrebbe infine guardarsi da scelte di comodo che banalizzano il testo: si allude ai cinque tagli, di scellerata tradizione, inflitti a libretto e partitura; tagli che paradossalmente colpiscono luoghi-chiave del dramma e riducono assai la portata narrativa e psicologica.

Essi possono forse essere ricondotti al retaggio generazionale e all’età avanzata (89 anni) del concertatore Christoph von Dohnányi. Fisicamente provato, egli ha lasciato la produzione dopo la prima recita. Tutte le restanti meno l’ultima, compresa quella qui recensita, sono passate a Markus Stenz: da lui una lettura chiara e decisa, nondimeno impossibilitata, visto il subentro in corsa, all’analisi personale e al virtuosismo. Interesse particolare intorno a Ricarda Merbeth: dopo tante apparizioni come Chrysothemis, ha debuttato qui nella più gravosa parte eponima. Il vantaggio di un soprano dal calibro più lirico che drammatico è di certo nella cura della linea di canto e nell’inconsueto pregio di smalto e timbro; lo svantaggio è nel dosare le energie anche a dispetto di quanto l’opera può ammettere: il titanico monologo d’ingresso, per esempio, pretende mezzi già espressi al completo, tonanti e generosi, e non può essere inteso come luogo di riscaldamento vocale; ciò che è invece avvenuto. Nella veterana Waltraud Meier, come Klytämnestra, il sopravvenuto affiochimento del materiale convive con l’erudizione attoriale di sempre. Regine Hangler è una Chrysothemis tanto luminosa quanto generica: ma l’antieroico personaggio ammette tale monotonia (può anzi giovarsene), mentre la cantante si trova in ideale equilibrio di spessore con le colleghe. Sopra ogni discussione sta l’Orest di Michael Volle, grandioso d’accento non meno di un Wotan. Eccellenti i caratteristi, da Roberto Saccà come Ägysth ad ancelle di lusso tra le quali Judit Kutási, Anna Samuil e Roberta Alexander.


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