Nella tela della voluttà
Nella prima rappresentazione bresciana del Rinaldo di Händel si impongono le voci di Francesca Aspromonte, Anna Maria Sarra e Luigi De Donato, con la sapiente e teatrale concertazione di Ottavio Dantone. Interessante, ma non esente da qualche difetto, la regia di Jacopo Spirei.
BRESCIA 2 dicembre 2018 - In una stagione che a Brescia ha spaziato, finora, dal grande repertorio alla danza e alla musica contemporanea, non poteva mancare un titolo barocco. La scelta è caduta su Rinaldo di Georg Friedrich Händel, per la prima volta in scena al Grande.
La regia di Jacopo Spirei non inquadra le vicende ai tempi delle crociate, ma le immagina trasposte negli anni novanta del XX secolo. Di Gerusalemme non v’è traccia, se non nelle menzioni lessicali del libretto di Giacomo Rossi. Impossibile non notare qualche errore tecnico nella messa in scena già dall’inizio: in principio del primo atto, infatti, gli interpreti si ritrovano in un riquadro centrale, un ufficio claustrofobico, senza finestre, incassato in una grande parete nera. Purtroppo questo consentiva la visione dell’azione dei tre personaggi impegnati (Goffredo, Rinaldo e Almirena) solo parzialmente. Meglio dall’ingresso di Armida, la cui dimora si trova di fronte a un giardino. Interessante il tema del ragno, utilizzato come metafora della capacità della maga di attrarre chiunque voglia fra le sue spire (la tela) e che abbandona la tematica della magia quando si scopre che Armida altro non è se non la proprietaria di un locale notturno (The spider), del tutto simile a quelli che possiamo ritrovare negli immediati dintorni di una qualunque città: sulle Torricelle a Verona o nelle zone lacustri della provincia di Brescia, tanto per non allontanarsi troppo dalla sala dove ci trovavamo domenica.
Armida si avvale della collaborazione di tre fanciulle che la coadiuvano nelle sue azioni, talvolta ancelle, talvolta ballerine, cubiste, fors’anche lapdancer, del locale. La funzione delle tre guardiane (se così vogliamo definirle) è utile a conferire dinamicità all’azione, considerando che i loro movimenti, quale sia funzione drammaturgica che stavano svolgendo, palesavano sovente degli accenni tersicorei – più danza moderna che classica - conformi alla linea musicale.
La giovane Almirena era interpretata da un’eccellente Francesca Aspromonte, capace di imporsi per la pulizia d’emissione, intonazione cristallina e intensità nel fraseggio, modulato con arte encomiabile in modo che ogni frase ripetuta restituisse (come si direbbe in linguistica) un metatesto capace di impreziosire il prototesto: un processo di traduzione intersemiotico doppio che sa restituire con il linguaggio del cuore il codice scritto, musicale e lessicale.
Ottima anche l’Armida di Anna Maria Sarra, che da crudele maga mostra un’evoluzione psicologica che la porterà alla conversione e, dopo un tormentato e violento processo, all’abbandono della malvagità. Vocalmente è palese la provenienza da un repertorio ottocentesco, che aiuta assai nell’accentazione e nell’intensità drammaturgica (specialmente nel secondo atto), senza mai abbandonare lo stile barocco.
Luigi De Donato è un Argante degno di lode, voluttuoso e prepotente, impetuoso nelle azioni come nel fraseggio. Accanto a lui merita una menzione d’onore anche Luigi Benetti (mago cristiano).
Completava il cast Anna Bessi (una donna).
Nel ruolo eponimo, domenica, abbiamo ascoltato Delphine Galou, un Rinaldo dall’aspetto marcatamente efebico, dalla musicalità precisa e accurata, ma dal fraseggio anodino che vanifica l’intensità emotiva del finale del primo atto, oltretutto per nulla supportato da un supporto scenico (almeno nelle luci) che rendesse il turbamento di un uomo che si era appena visto rapire l’amata.
Raffaele Pe è un corretto Goffredo, musicalmente preciso, al pari della Galou, ma più intenso nell’interpretazione. Sicuramente la sua vocalità ci pare più adatta al repertorio contemporaneo, ma è capace di portare a termine con onore anche questa parte.
Ottavio Dantone (cembalo e direzione) offre, alla guida dell’Accademia Bizantina, una prova musicale maiuscola, ricca di colori, intensa nel fraseggio e ricercata sia nella dinamica, sia nell’agogica. Drammaturgicamente, filologicamente e musicalmente condivisibile la scelta di mescolare le due versioni del 1711 e del 1731, con l’impiego di due soprani nei ruoli femminili principali e una predilezione per l’utilizzo di due bassi nei ruoli di Argante e del Mago Cristiano.
Peccato per i numerosi, troppi, rumori provenienti dalle quinte del Teatro Grande, che con il loro clangore turbavano in maniera eccessiva l’esecuzione. L’idea di dividere in due, mediante un rigido sipario nero (non un tagliafumo), il palcoscenico era interessante al fine di non spezzare la linea narrativa, ma gli elementi scenici andrebbero sostituiti con maggior grazia.
Le scene erano di Mauro Tinti, i costumi di Silvia Aymonino, le luci di Marco Alba.