Aida, versione beta
Non convince l’Aida allestita dal Carlo Felice di Genova in occasione dell’apertura di stagione: se da un lato la regia di Alfonso Antoniozzi rivela una buona sensibilità al materiale drammaturgico, dall’altro la disomogeneità degli elementi costruttivi penalizza il risultato complessivo dello spettacolo, comunque accolto con entusiasmo dal pubblico genovese.
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Genova, 09 Dicembre 2018 – Stupirsi dinnanzi ai miracoli della tecnologia è un lusso riservato a pochi e solo chi ha vissuto l’era digitale come la realizzazione di un’utopia fantascientifica sa avvicinarsi alle diavolerie moderne con l’incanto della scoperta. Viziati dal progresso che ormai disvela il mondo esclusivamente in full HD, i figli del bit troveranno ben poca magia nella nuova produzione di Aida allestita dal Teatro Carlo Felice di Genova per inaugurare la stagione lirica 2018/2019. Di innovazione, nell’ingorda accezione del termine, in effetti, ce n’è ben poca perché videoproiezioni e giochi di luci hanno già da anni arricchito il lessico del linguaggio scenotecnico, diventando di fatto strumenti utilissimi – se non indispensabili – nella costruzione di qualsiasi spettacolo teatrale e la risoluzione di una messinscena a mezzo della grafica virtuale sembra rispondere più a esigenze erariali che a sincere necessità espressive.
Questo perché, in fin dei conti, la regia di Alfonso Antoniozzi non si lascia allettare dalle potenzialità del calcolatore né si sforza di ricercare l’effetto grandioso che nell’immaginario collettivo si pensa Aida debba sortire. Essa lavora piuttosto sul lato intimistico e terreno dell’opera, facendo di Amneris e Ramfis i personaggi chiave di una lettura che non volta le spalle alle direttive del libretto. Della «Figlia de’ Faraoni», infatti, più ragazzina capricciosa che bellicosa erede al trono, Antoniozzi rivela le fragilità e gli affanni celati da un’animosità di facciata, alimentata dalle ferite inferte alla donna innamorata e disillusa (durante il preludio, nascosta dalle proiezioni in proscenio, si intravede una donna accasciata al suolo: è Amneris che piange sull’ «ara del Nume sdegnato»). Ecco quindi che i fantasmi dell’ossessione amorosa prendono vita durante la danza di piccoli Schiavi mori, quando, grazie alle coreografie di Luisa Baldinetti, l’immagine di Aida – un ballerino indossa lo stesso velo carminio della schiava etiope – e Radamès scocca la scintilla dell’ira che infiammerà il successivo duetto ed esploderà nello schiaffo della principessa egiziana alla rivale. Interessante è poi l’accento posto sull’arcigne figure sacerdotali, viepiù enfatizzate dai futuristici costumi di Anna Biagiotti – invero abbastanza scontati e più tradizionali per le parti primarie – che sembrano richiamare i paramenti sacri cattolici, specie nella lussuosa pastorale sormontata dall’ankh, la croce ansata in uso nell’antico Egitto. Memore delle parole di Filippo II «L’orgueil du Roi fléchit devant l’orgueil du prêtre!» («Dunque il trono piegar dovrà sempre all'altar!» nella versione in italiano del Don Carlos) e consapevole della gestazione del capolavoro verdiano nei mesi immediatamente precedenti alla presa di Roma (a cui è difficile immaginare il Verdi dei cori dei Lombardi, Ernani, Nabucco e così via potesse rimanere indifferente), il regista fa della casta religiosa un modello di potere incontrastabile, imponendo loro gestualità imperiose e una presenza massiccia sul palco che soffoca tanto la scena quanto la libertà concessa al dominio temporale. In questo sviluppo ben argomentato, le videoscenografie di Monica Manganelli abbracciano senza dubbio il disegno registico nei punti di snodo dell’intreccio drammaturgico – seppur con soluzioni spesso discutibili, come nel suddetto duetto, quando i cocci di specchi raffiguranti Aida proiettati ovunque e la cascata di petali regalano un appeal decisamente kitsch – ma vivono perlopiù di vita propria: l’Egitto avveniristico, fatto di piramidi fluttuati, scenari apocalittici, sfingi sommerse e abissi interspaziali cerca disperatamente di impressionare ma finisce col simulare le surreali ambientazioni di un videogioco dei primi anni duemila. Se a questo poi si sommano le molteplici défaillance tecniche durante lo spettacolo (video bloccati, immagini che svaniscono, le lance dei figuranti frapposte tra il proiettore e il celexon, grossolanamente spifferato in chiusura del secondo atto dalle accecanti luci di Luciano Novelli), il risultato complessivo di un progetto sicuramente rischioso deve fare i conti con l’impietosa realtà. Terrificante la scena finale, con Amneris sospesa su un ponte mobile e i due protagonisti ingabbiati in un ascensore angusto. E i fondali, ancora una volta, bloccati. Se infatti l’esecuzione scenica potrebbe essere considerata come la versione beta di un software, dunque soggetta a bug, il versante vocale mostra, proprio nel culmine dell’opera, l’insufficienza delle proprie risorse.
Svetla Vassileva, nel ruolo eponimo, affronta la parte con una regale presenza e una grande varietà negli accenti. Purtroppo la voce non risponde alle nobili intenzioni e se i passaggi di fierezza dell’atteso «Ritorna Vincitor!» trasudano vibrante intensità drammatica, le evidenti mende nella tessitura acuta e nel canto di grazia, con filature strozzate e tese, invalidano l’esito del suo debutto. Non migliore la prova di Marco Berti nei panni di Radamès: lo strumento, eccellente per squillo e volume, è gestito scorrettamente, con emissione disomogenea, intonazione periclitante e una carenza nel legato estremamente penalizzanti nell’aria di sortita e nel finale. Judit Kutasi, avvantaggiata da una voce più timbrata, di pasta corposa e ambrata, si disimpegna invece bene nell’impervia tessitura prevista per Amneris, canta con garbo e compostezza, in accordo con la visione di Antoniozzi, non eccede sul piano espressivo e dimostra un ottimo controllo del mezzo vocale. Angelo Veccia attinge alla nutrita esperienza per tratteggiare un Amonasro nobile ed equilibrato, sfaccettato nelle inflessioni che ha saputo donare al personaggio. Positiva anche la prova di Fabrizio Beggi, convincente soprattutto per il piglio ieratico e autorevole del suo Ramfis. Completano il cast l’apprezzabile sacerdotessa di Marta Calcaterra, Seung Pil Choi (Il Re d’Egitto) e Blagoj Nacoski (Un messaggero). Molto valida la prova del Coro del Teatro Carlo Felice istruito dal maestro Francesco Aliberti.
Sul podio, Andrea Battistoni predilige l’aspetto pugnace della partitura e dirige i complessi della fondazione genovese, in gran spolvero, con impeto e slancio, assicurando comunque un buon equilibrio tra le varie sezioni. Elemento portante dell’intera concertazione è la febbrile modellazione del materiale ritmico, caratterizzata da contrasti agogici repentini che però, nonostante l’indiscutibile efficacia, rischiano di smorzare con violenza le atmosfere oniriche dei passaggi più distesi e limitare il ventaglio espressivo dei vari interpreti, non sempre prontissimi nel rispondere alle improvvise impennate orchestrali.
Pochi posti liberi, tanto entusiasmo e applausi convinti per l’intera compagnia.