Nabucco come specchio della società
In una Staatsoper di Vienna gioiosamente prenatalizia, Luca Salsi, diretto da Paolo Carignani, è Nabucco.
Vienna, 12 dicembre 2018 – Vienna è notoriamente una città con un’offerta culturale tanto ampia da assicurare l’apertura di numerosi teatri ogni sera: proprio il 12 dicembre la premiére al Teatro An Der Wien di Euryanthe di Carl Maria von Weber si è accaparrata le attenzioni dei musicofili più curiosi e informati. Ciononostante, la Staatsoper registra il tutto esaurito. Complici sono la notorietà del titolo in cartellone, il verdiano Nabucco, e l’affluenza di turisti in città, i quali, se già tutto l’anno percorrono le strade della ex capitale imperiale, durante l’Avvento si moltiplicano attirati da luminarie e mercatini.
Il titolo è tra i più classici del repertorio, e nel cast si annoverano habitué del maggiore palcoscenico viennese.
Luca Salsi, unico italiano, tratteggia un Nabucco introverso, prima padre che sovrano; prova tutti i sentimenti di un uomo che crede di fare il meglio per i suoi cari e che si vede tradito da colei che ha amato pur non essendo sua figlia naturale. Non è impazzito, non c’è folgore che lo colpisce, è semplicemente un uomo che non si dà pace per i propri errori. D’altronde, aiuta il trasparire delle apprezzate screziature intime anche un’impostazione registica (a cura di Günter Krämer) molto scarna, che lascia tutto il peso interpretativo nelle mani dei cantanti. Dire infatti che l’impianto scenico (Manfred Voss e Petra Buchholz) sia minimalista, significherebbe esagerare: sul palco ci sono pochi dettagli e un grande sfondo vuoto che muta di tonalità di colore grazie ai giochi di luci (Manfed Voss). Onnipresente è però un Olocausto che se non è vissuto, è comunque costantemente evocato o annunciato: quelli sul palcoscenico sono infatti gli appartenenti a un popolo ebraico senza tempo (gli abiti di Falk Bauer delineano un vago Secondo Novecento), ma pieno della propria storia, cosciente delle pene passate e presenti. Per loro la volontà di Abigaille non è niente altro che l’ennesima minaccia di sterminio, ma non per questo meno temuta. Ne veste i panni Liudmyla Monastyrska, che ha un portamento nobilissimo e tanta voce dai toni bruniti ad assecondare le contraddizioni del personaggio. I suoi filati sono finissimi e penetranti, e la voce non perde di smalto né nei centri né agli estremi della tessitura. Solo i passaggi più agili le risultano leggermente sbavati, ma, dato il peso dello strumento, ciò non sorprende.
In questa lettura, Fenena (Szilvia Vörös), figlia di re e privilegi, si unisce al popolo ebraico non solo per amore di Ismaele (l’unico aspetto che troppe regie sottolineano), ma lo fa soprattutto con la coscienza di chi sceglie di stare dalla parte degli oppressi. Le sue ragioni travalicano il libretto di Solera e rimangono attualissime, se pensiamo che solo pochi giorni fa la senatrice Liliana Segre, sopravvissuta di Auschwitz, ha affermato infatti di essere “contenta di essere stata vittima e non carnefice”.
L’impressione che la sua conversione sia dovuta a sincere motivazioni religiose è anche corroborata dal fatto che la guida spirituale Zaccaria di Ain Anger (nonostante qualche lieve stonatura) sia molto presente e carismatico, tanto da assumere un ruolo di netta predominanza, soprattutto nei confronti di Lukhanyo Moyake, poco convincente nei panni di un Ismaele che ricorda un accademico, perso in discussioni teologiche, più che un valoroso condottiero.
Buone anche le presenze di Leonardo Navarro (Abdallo) e Olga Bezmertna (Anna).
Il Maestro Paolo Carignagni è apprezzatissimo alla guida di un’orchestra che, sebbene percorrendo la partitura verdiana sembri scalpitare per suonare un repertorio più orientato verso l'area germanica, brilla per impasti timbrici e qualità degli assoli. Del pari pregevole è l’apporto del coro: dopo il sempre atteso "Va', pensiero" è molto applaudito, non solo per copione, ma per giusto merito.
La lettura definitiva dell’idea registica è chiara solo quando, nell’ultimo atto, alcuni giocattoli, che nel preludio erano stati contesi dai corrispettivi bambini dei protagonisti, vengono bruciati e distrutti dai personaggi adulti. Tra questi, un teatrino di cartone e uno specchio, più volte durante l’opera rivolto verso gli spettatori: l’intento è quello di riflettere e far riflettere sul fatto che le guerre sono sempre intestine, sempre guerre tra fratelli, tra bambini che litigano, e che ogni società si può specchiare in questo. Anche la nostra.