Uno Schumann ‘classico’
di Stefano Ceccarelli
L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia termina il ciclo delle sinfonie di Robert Schumann dirette da Daniele Gatti: è la volta della Seconda e della Quarta, ove nel 2016 s’eseguirono la Prima e la Terza. Gatti si dimostra sensibilissimo a fatti di estetica sonora e agogica, velando il tutto di una brillantezza ‘classica’ che, però, a mio avviso, ha cozzato con molta sensibilità schumanniana, difficilmente imbrigliabile (pena il depauperamento di una notevole componente emozionale) in una così tersa lettura. L’orchestra ha suonato magnificamente, così come il coro ha cantato divinamente. Gli applausi attestano il gradimento del pubblico.
ROMA, 3 febbraio 2018 – Era il 2016 quando Daniele Gatti aveva incominciato, presso l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, il suo ciclo integrale delle sinfonie di Robert Schumann: le prime due furono la Prima e la Terza, la celebre “Renana”. Ora, torna per completare il ciclo con la Seconda e la Quarta, inframmezzate dal Nachtlied.
S’inizia con la Sinfonia n. 2 in do maggiore op. 61. L’orchestra dimostra subito tocco magnifico nelle atmosfere, vagamente cupe, create dalla tela armonica di Schumann nel Sostenuto assai, malgrado un problema d’intonazione nel difficile attacco in accordo di trombe, tromboni e corni. Gatti dirige, al solito, coprendo tutto d’un sottile velo di raffinata brillantezza, quasi che tutto sia soffuso. Per Gatti un fortissimo è il forte o addirittura mezzo forte di altri direttori. L’agogica, certamente pregevole per sensibilità, esalta molti momenti che sono autenticamente brillanti nella partitura, ma ne mortifica altri che dovrebbero essere palpitanti, maggiormente netti, intensi. Gatti adagia, delicatamente, su tutto il movimento un velo di aggraziata classicità: uno Schumann ‘classico’ appunto, bello sì, ma privato di quel tormento psichico che, pur sublimato, emerge in molti punti della Seconda. A leggere le parole del programma di sala, parole ben ponderate da Antonio Rostagno, parole che narrano di come Schumann soffrisse terribilmente in quel momento della sua vita, non pare di sentirne l’equivalente sonoro nella lettura che Gatti dà dell’Allegro ma non troppo (I) della Seconda. La sua scelta agogica, tesa alla ricerca della brillantezza, del bel suono, attenta spasmodicamente a fatti di estetica sonora, dà invece i suoi frutti nello Scherzo. Una maggiore partecipazione emotiva di Gatti si sente nel commovente Adagio espressivo, dove l’effluvio lirico promanato dalle linee degli archi è lasciato scorrere con intensità; della perizia di Gatti, che ha buona mano bozzettistica, basterebbe a portare testimonianza il breve canone, che è cesellato con maestria. Come per il I, anche per il finale Allegro molto vivace Gatti sceglie di attenuare ogni contraddizione insita nel tessuto compositivo, tornando al senso di composta classicità sonora del I. Personalmente preferisco altri approcci a questo sinfonismo di Schumann, psicologicamente delicato: quello di Bernstein, per esempio, o di von Dohnányi, più energici, sentimentalmente coinvolti; o quello di Karajan, forse in tal senso più estetizzante. Gli applausi attestano il gradimento del pubblico e si complimentano con l’ottima esecuzione orchestrale.
Sulla performance del Nachtlied op. 108, invece, penso che si possa essere d’accordo sul fatto che questa sensibilità di Gatti giovi incredibilmente ai chiaroscuri dei vari passaggi orchestrali, bruniti, sopra i quali il canto del coro si libra in mille sfumature di notturna malinconia. Qui Gatti incontra, senza riserve, la Stimmung che Schumann aveva previsto per il pezzo: il coro, fra i migliori al mondo, canta splendidamente.
Chiude il concerto la Sinfonia n. 4 in re minore op. 120. Nello Ziemlich langsam Gatti si cura di particolareggiare le volumetrie della massa orchestrale, come pure dell’effetto ‘teatrale’ di alcune sezioni di giunzione, con ottimo senso agogico. Il Vivace (I), seppur vissuto più intensamente della precedente Seconda, non si eleva molto al di sopra del ‘classicismo’ già lì impostato: assistiamo – questo è vero – a qualche gesto più deciso, sì, ma forse non abbastanza netto per il sentimento profondo che Schumann vuole esprimere con lo sviluppo del I movimento. (Che, poi, per esempio, Furtwängler riuscì a coniugare brillantezza e analisi agogica a una profonda espressione del dolore schumanniano). La direzione di Gatti della Romanza (II) incontra la poetica del tedesco, invece, assai di più: anche qui vediamo qualcosa di, forse, troppo levigato, ma siamo commossi dalla mano di Gatti. Nello Scherzo (III), come nel relativo della Seconda, la brillantezza della scrittura è debitamente esaltata, con punte di grazia incredibile nel Trio, ma il tutto è velato di una certa qual astenia. Il finale (Lento. Vivace) vede Gatti scandire l’agogica con intento di risaltare le parti di un discorso che, come spesso accade in Schumann, è profondamente riepilogativo: ma ancora manca la vis necessaria a far esplodere gli intimi contrasti di Schumann. Gli applausi sono calorosissimi: il pubblico ringrazia debitamente direttore e orchestra. All’insegna, dunque, di questo ideale di ‘classico’ romanticismo si chiude il ciclo schumanniano di Gatti.
foto Musacchio & Ianniello