L'Ala e la Luna
di Andrea R. G. Pedrotti
Spiccano le prove di Luca Salsi e Luciano Ganci, Violeta Urmana e Lisette Oropesa nel Gala verdiano all'Arena di Verona. La magia della luna e del firmamento sull'anfiteatro aiuta a superare anche alcuni problemi innegabili soprattutto nella concertazione.
VERONA, 26 agosto 2018 - L'Arena di Verona è, in fondo, non è altro che l'Isola che non c'è, con al suo interno il Paese dei balocchi. Tutto cambia prospettiva all'interno dell'anfiteatro, lo sguardo si fa etereo verso una realtà trascendente, ornata dal più onirico e romantico fra i duetti: quello fra l'argenteo perigeo lunare e la marmorea ala, al cospetto della scintillante corona del firmamento.
La meraviglia è data da una luna capace di sorgere, più fulgida che mai, perfettamente a tempo con la Sinfonia che il golfo dal golfo mistico andava a spandersi nell'aere, brillare nel momento in qui Violetta, in un afflato di vitalità, dice “Gran Dio, morir si giovine”, tornare a riposare in una sottile coltre di nubi, per riapparire, questa volta nella melanconica lucentezza dei suoi crateri, pronta ad accogliere a sé la peccaminosa anima della più celebre fra le cortigiane parigine.
Tutto questo, da sé, è capace di garantire un successo e gli applausi ci sono stati indubbiamente, ma il compito di chi è chiamato a scrivere è anche, ahimé, imparare a estraniarsi dalla gioiosa atmosfera metafisica generata dal celeberrimo anfiteatro romano.
Per questa sera, interamente dedicata a Giuseppe Verdi, il pubblico veniva accolto da un palcoscenico allestito con un pianoforte e alcune stampe. All’inizio del Gala vero e proprio il palco veniva liberato, per accogliere il corpo di ballo, intento a danzare sulle note della sinfonia di La forza del destino. La coreografia di Luc Bouy non entusiasma, completamente slegata dalla linea musicale e avulsa da qualsivoglia drammaturgia. Sembra di assistere a una grande lezione di danza, un’esercitazione, senza particolare significato. La coordinazione fra i ballerini non era perfetta, ma bisogna sempre tener conto che si tratta di un organico interamente composto da aggiunti. Certo, pur convinti che ci vorranno ancora anni, la speranza resta sempre quella di ritrovare serate come quella del memorabile Camen Gala Concert del 2015, quando il corpo di ballo venne ampiamente utilizzato nel corso della serata.
Riguardo i tre atti rappresentati in sequenza (II di Rigoletto, III di Il trovatore e III di La traviata), il regista, Stefano Trespidi, si è affidato a una sostanziale tradizione di maniera, talvolta fin troppo datata e caricaturale. L’inserimento di alcune proiezioni e l’utilizzo di un palco inclinato trasformabile offrivano una discreta dinamicità, ma da un Gala ci si aspetterebbe molto più a livello di idee. Belli i fari di color azzurro, assai simi a quelli utilizzati durante le ormai tradizionali esibizioni di Roberto Bolle in Arena. Decisamente fastidiosa una violenta fiammata in principio della cabaletta “Di quella pira”, talmente calda e accecante, da impedire, perlomeno al sottoscritto, per alcuni secondi di godere di una visione nitida.
Deficitario l’aspetto musicale, soprattutto a causa dell’esiziale concertazione di Andrea Battistoni, che sfiora la sufficienza nella sinfonia da La forza del destino e si fa troppo forsennato nei tempi in Il trovatore, oltretutto senza riuscire minimamente a ottenere una coesione accettabile fra le sezioni orchestrali. La direzione di Battistoni, per di più, è caratterizzata da uno scollamento disarmante fra buca e palcoscenico, con grave difficoltà per i cantanti e coro, slegati fra loro in un gran disordine. In La traviata, specialmente in “Parigi, o cara” si notano accelerazioni e rallentamenti improvvisi nelle dinamiche, venendo meno alla stessa metrica musicale delle battute in partitura. Peccato, infine, per alcune urla del direttore d’orchestra, coreografiche, ma assai fastidiose.
Nella parte dedicata a Rigoletto si distingue positivamente Luca Salsi che conferma la sua caratura di baritono internazionale di primo livello. Molto bello il fraseggio di “Piangi, fanciulla, piangi” ed eccellente il Lab al termine della stretta “Sì, vendetta” sia nella prima esecuzione del duetto, sia nel bis. Accanto a lui, bene anche la Gilda di Lisette Oropesa, che nel bis migliora un Mib già convincente. Male il Duca di Mantova di Rame Lahaj, piatto nel fraseggio, povero di squillo e con evidenti mende tecniche nell’emissione. In questa prima parte completavano il cast: Biagio Pizzuti (Marullo), Carlo Bosi (Matteo Borsa), Romano Dal Zovo (Il Conte di Ceprano), Nicolò Ceriani (Il Conte Monterone), Barbara Massaro (Paggio della Duchessa) e Gocha Abuladze (Usciere).
Meno soddisfazioni musicali in Il Trovatore, con l’unica perla dell’Azucena di Violeta Urmana. Simone Piazzola (Il Conte di Luna) palesa una vocalità notevolmente impoverita sia negli armonici, sia nel volume, e notevoli difetti di intonazione. Fuori ruolo Francesco Meli come Manrico, che propone una bella esecuzione di “Ah sì, ben mio” (tranne quando la scrittura lo costringeva sopra il la naturale), mentre nella successiva cabaletta (seppur abbassata nella tonalità) si vede costretto a preparare a lungo acuti comunque insufficienti nella resa, sicché, in quello conclusivo, la voce appare strozzata, lasciando intuire un semplice “all’a…”, senza “rmi”. Similmente era accaduto poco prima quando “teco almeno…” diviene “eco almeno”.
Sul palco per questa seconda parte anche Serena Gamberoni (Leonora), Romano Dal Zovo (Ferrando) e l’ottimo Carlo Bosi (Ruiz).
Chiusura con La traviata, durante la quale brilla la stella di Luciano Ganci, perfetto per emissione, squillo e passaggio di registro, oltre a essere ottimo fraseggiatore. La voce del tenore corre in Arena assai bene dimostrando, ancora una volta, il livello artistico di un interprete in meritata ascesa. Molto male la Violetta di Maria Mudryak, insufficiente nel fraseggio e dotata di un’emissione tecnicamente poco affinata che la conduce fin troppo sovente a suoni calanti.
Simone Piazzola (Giorgio Germont) conferma, purtroppo, l’impressione avuta come Conte di Luna poco prima. Completavano il cast Martina Gresia (Annina) e il Dottor Grenvil (Romano Dal Zovo).
Eccellente il coro preparato da Vito Lombardi.
Per la parte visiva a Stefano Trespidi (regia) e Luc Bouy (coreografia) si univano Michele Olcese (scene), Paolo Mazzon (progetto luci) e Sergio Metalli (proiezioni).
Al termine comunque il successo è arrivato, anche perché i marmi dell’Arena, il firmamento e l’argentea luna restano emblema di quella fantasia metafisica che solo l’anfiteatro scaligero sa restituire.
foto Ennevi