Austera, carnevalesca, struggente
di Irina Sorokina
Barrie Kosky si conferma uno dei migliori registi d'oggi con una Bohème affidata a un eccellente cast giovane.
BERLINO, 27 gennaio 2019 - La Bohème appartiene alle cosiddette “opere facili”. Certamente, non perché la sua musica sia di facile ascolto o la sua drammaturgia primitiva, ma perché è scritta così bene, in un modo così coinvolgente e presenta i personaggi in maniera così trasparente e convincente che il pubblico da sempre è innamorato di questo titolo pucciniano. E, quindi, è inevitabile che si innamori a prima vista alla Bohème andata in scena al Komische Oper, Berlin, firmata dal direttore artistico dell’ensemble berlinese Barrie Kosky.
Si sente pienamente a suo agio, il regista australiano, quando si tratta della storia frizzante e commuovente di alcuni giovani, quattro uomini e due donne; la mette in scena con un’estrema naturalezza e uno spirito spumeggiante, e a noi non rimane che lasciarci andare e partecipare.
Si avvale della preziosa collaborazione dello scenografo Rufus Dizwiszus che sembra “andare al risparmio”. Difatti, perché pensare di creare una povera mansarda se si può benissimo ambientare le faccende di “quattro moschettieri” sul palcoscenico del Komische Oper completamente spogliato? Si vede la scatola scenica senza le quinte, con alcune funi e alcuni riflettori e viene messa quasi sospesa sopra il golfo mistico una piccola pedana. Ecco la mansarda con il minimo indispensabile per sopravvivere, una sedia, una stufa, qualche tenda e una macchina fotografica (per volontà di Kosky e del drammaturgo Simon Berger Marcello cambia mestiere, fa fotografo, non pittore). I quattro simpatici amici affittano una misera dimora in alto, tanto in alto; una piccola porta si apre nel pavimento e si percepisce fisicamente il fiatone di chi è costretto di salire “quelle scale”.
Tanta austerità, minimalismo estremo. Tutto cambia però, quando da una mansarda profumata di speranze, ci si sposta nel Quartiere Latino, dove alla vigilia di Natale a nessuno viene in mente di esseri austeri e modesti. Un’estremo cede un posto a un altro; più della vigilia di Natale sembra il martedì grasso. La fantasia del goliardico regista australiano si scatena al massimo, il palcoscenico è riempito da decine di persone, forse troppe; non rimane un centimetro libero, i tavoli e le sedie del caffè Momus sono posizionati nel modo così vicino che Marcello per forza si siede quasi sulle ginocchia dell’adorata Musetta. Tutto luccica, gira, acceca, produce i rumori, esagera, impazzisce, il coro dei bambini è vestito da topini e Parpignol è conciato in modo da somigliare a un angelo, ha le ali attaccate alla schiena, ma non manca anche un gonnellino simile al tutù di una piccola bambina alla sua prima lezione di danza (i bellissimi e originali costumi sono di Victoria Behr e le luci suggestive di Alessandro Carletti). In questo trambusto di rumori e colori sembra naturale che Musetta intoni "Quando io me n’vo" saltando sopra un tavolo.
Si cambia musica nel terzo quadro, risolto tornando allo stile minimalista e molto efficace, al posto della barriera d’Enfer troviamo lo spazio completamente vuoto, con un fondale che rappresenta una veduta parigina in bianco e nero, strappato in mezzo. Da lì, in perfetta sintonia con il forte accento presente nella partitura all’inizio, spunta Marcello ubriaco accompagnato da tre ragazze semivestite di cui il mestiere è chiaro; ha con sé la macchina fotografica intento di fare gli scatti alle sue amiche. Dopo la scena straziante con Rodolfo e Mimì scappa come un pazzo, sempre sullo stesso accordo accentuato che conclude il terzo quadro. Nel quarto si torna nella mansarda.
Due sono le stelle indiscusse di questa Bohème, la prima è inevitabilmente Günter Papendell nei panni di Marcello, la seconda Nadja Mchantaf quale Mimì, entrambi membri dell’ensemble berlinese. Papendell sfrutta senza nascondere il suo grande fascino di uomo, cantante ed attore; disegna un Marcello decisamente attraente, intelligente, molto umano, un po’ gigione, un po’ dannato, un po’ erotomane, un po’ alcolizzato. Canta con una disinvoltura quasi pazzesca, sorprende come una voce così ampia e da un timbro così smagliante abbia trovato casa in un corpo così snello ed aggraziato.
Nadja Mchantaf si rivela anche lei la scelta vincente, disegna Mimì tutta sua, priva del tutto dei tratti che un pubblico abituale d’opera si aspetta. Non è per niente dolce e remissiva, è una ragazza forte, determinata, capace di lottare, innamorata pazza della vita anche se quest’ultima non si è dimostrata clemente con lei. Non è eccessivamente esile, è ben fatta e ha un portamento quasi fiero. Indossa un vestitino a quadretti, grigi e neri, tronchetti neri, e porta un taglio di capelli corto e sbarazzino. Una Mimì piuttosto energica che conquista la nostra simpatia dalla prima vista. Recita con trasposto e abbandono, la Mchantaf, non si risparmia per niente, ama, ride, piange, sbaglia, cerca di migliorare la propria condizione andando col viscontino che non ama e torna alla misera mansarda, per confermare il proprio amore per Rodolfo e morire. Morire, ribellandosi alla morte con una forza immensa, accasciandosi sopra una sedia dove la mette Rodolfo per farla fotografare un'ultima volta da Marcello. Canta benissimo, la Mchantaf, sfoggiando una voce salda, ben timbrata e proiettata, con una sfumatura amarognola nel timbro, e fraseggiando con grande sapienza e gusto.
Tutta la compagnia di canto è perfetta per i ruoli che deve affrontare. Rodolfo viene interpretato dal giovane e attraente Jonathan Tetelman per cui non è necessario recitare la parte del poeta, perché lui stesso è poeta. Tutto gioca a suo favore, un fisico snello, la grande simpatia che emana, la sincerità con cui canta. Anche lui, simile alla sua partner, vanta una voce che vola senza sforzi, di bel timbro giovanile, linea di canto carezzevole e accento giusto.
Vera-Lotte Böcker è “condannata” al successo; è una giovane donna davvero avvenente, una qualità indispensabile per la piccola “vipera”. Tutti gli occhi sembrano posare su di lei, sulla sua bellissima figura, sul viso armonioso e sulla cascata dei capelli biondi. Coraggiosa, disinvolta e estremamente femminile, canta in modo impeccabile, conquista con una grande musicalità, un bel legato e un acuto facile.
Daniel Foki – Schaunard e Philipp Meierhöfer - Colline stanno benissimo al gioco dei “moschiettieri” con Rodolfo e Marcello, recitano con una grande intraprendenza e gusto e cantano con stile. Christoph Späth come Alcindoro punta all’eleganza senza voler ridicolizzare il suo personaggio e Emil Lawecki ottiene un certo successo personale quale Parpignol grazie non solo al canto espressivo, ma sicuramente anche alla disinvoltura con cui indossa le ali e “il tutù”. Corretti gli interpreti del sergente dei doganieri, Jan-Franck Süße, e del doganiere, Tim Dietrich. Nella lista dei personaggi e gli interpreti manca Benoit; infatti, questo personaggio non appare nell’allestimento berlinese, i ragazzi immaginano questa scena e il ruolo del proprietario della mansarda è recitato da Colline.
Jordan de Souza guida l’orchestra del Komische Oper con energia autenticamente giovanile, optando per un tono vivace e scintillante, ma prestando dovuta attenzione agli slanci lirici e ai momenti di alta tensione drammatica. Il coro dell’ensemble berlinese preparato da David Cavelius può soltanto confermare la sua altissima reputazione, tutti i suoi membri sono cantanti ed attori eccellenti, veri animali da palcoscenico. Molto bravo e partecipe il coro delle voci bianche diretto da Dagmar Fiebach.
Con questa Bohème, Barrie Kosky si conferma uno dei migliori registi d’oggi, ma, del resto, non ce n’erano dubbi.
foto Iko Freese | drama-berlin.de