L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Giara mezza vuota

 di Antonino Trotta

Danza e canto incrociano le spade nell’arena del Teatro Regio di Torino: La giara di Casella s’incrina sotto il peso di una concezione vaga e pretestuosa mentre Cavalleria rusticana, sobria nel curato prospetto di Gabriele Lavia, riscuote un meritato successo. In tutte e due le prove, tuttavia, s’impone la direzione di Andrea Battistoni.

Torino, 12 Giugno 2019 – La Sicilia raccontata da Mascagni sembra lontana anni luce dalle sfumature coloristiche del vivace quadro di Casella. Non potrebbe essere diversamente, del resto, quando l’importante materiale letterario alla base filtra la Trinacria secondo poetiche e grammatiche differenti, figlie del trentennio che separa la prima dalla seconda e che parimenti si propagano nell’ambito strettamente musicale. Eppure nella traduzione del testo e soprattutto nello sviluppo drammaturgico dell’opera entrambe rivelano una profonda attenzione al continuum teatrale, alla compenetrazione tra buca e scena mai relazionate secondo un paradigma di subordinazione, bensì edificate per essere l’una l’altare dell’altra. Nella Giara le danze intervengono in punti ben definiti della sceneggiatura, in momenti in cui l’azione prevede la danza, quasi Casella provasse a giustificare la componente coreografica e ballettistica della sua commedia. Allo stesso modo Mascagni, nel pieno della crisi dei pezzi chiusi – prima che Verdi, tre anni dopo col Falstaff, li superasse definitivamente –, ricorre a un simile espediente per motivare la presenza di alcuni numeri musicali: la siciliana iniziale è un’aria chiusa condonata per il fatto di essere la serenata di Turiddu a Lola; e la stessa epifania argomenta la maestosa pagina corale del «Regina coeli», in cui si coglie poi l’occasione per spingere Santuzza sotto i riflettori, come se ella si ergesse a sacerdotessa della liturgia pasquale.

Appare dunque abbastanza pretestuosa la rinuncia di Roberto Zappalà, nella Giara, a un discorso narrativo compiuto, che non deve necessariamente tenere fede alla dinamiche della commedia pirandelliana, ma quantomeno provare a reinterpretarle secondo una drammaturgia fresca e creativa atta a confezionare qualcosa da identificare senza equivoci nella mente di chi guarda. Invece l’impressione è solo quella di assistere, nella bocca di una giara di design – costumi, luci e scenografie, firmati anch’esse da Zappalà con l’intervento di Veronica Cornacchini, sono splendidi –, all’esaltazione vanesia della danza, a corpi sgargianti in moto senza una meta, espressione forse di un esotismo tutto nazionale che avvicina la partitura ai temi e alle modalità del Primitivismo est-europeo del primo Novecento; e se la musica è di Casella, pare una mera coincidenza. Stravinsky, Skalkottas, Enescu, Bartók, persino Brahms o Beethoven, chiunque sia riuscito a introiettare il vitalismo del materiale folklorico entro i confini del proprio stile compositivo avrebbe potuto offrire la cornice in cui appiccicare la stessa coreografia, senza alcuna differenza. È il drammaturgo Nello Calabrò stesso, nelle note di regia, a confutare poi la presenza di una logica ben scandita: «Giara come pancia/bocca. Bocca che non parla, non vomita parole ma danza. La pancia è visceralità, e la danza, attraverso la bocca, ne è il suo verbo. La giara è una pancia, un interno che protegge e che ripara. La giara è Mediterraneo, la Sicilia che accoglie. […] La giara/pancia diventa luogo dove si vive (si danza), luogo dove ci si adatta a vivere come nella balena di Collodi». La giara è tutto e niente, insomma, un vaso ancora da riempire.

Per contrasto ci rassicura il lineare lavoro di regia con cui Gabriele Lavia rifinisce una Cavalleria rusticana pur allestita in un’evidente economia di mezzi. Scenografia spoglia dove si avvallano colline e promontori in pietra lavica, illuminata con maestria dalle luci di Andrea Anfossi che trasformano i fiori in fiumi di magma incandescente. E una storia, quella di Verga, che il regista racconta senza dare per scontata, facendo dunque del taglio tradizionale una strada da puntualizzare e non una soluzione di backup da ripristinare in assenza di idee, snocciolando già nel preludio tutti i presupposti carnali e sanguigni della novella; perché la baruffa dei picciriddi, all’inizio, potrebbe apparire come un influente dettaglio di sfondo, schiuma espansa per rattoppare le fessure di una parete scalcinata, eppure aiuta a esalare quella sulfurea atmosfera che fa di Cavalleria un’opera di pungente violenza.

Più di tutti tiene le redini del discorso teatrale Andrea Battistoni che scava nel golfo mistico un’autentica cassa di risonanza del palcoscenico, intavolando una concertazione altamente descrittiva e coerente con l’arcata drammatica della narrazione. Ribolle, nei ritratti popolareschi di Cavalleria, la frenetica eccitazione dinamica e ritmica con cui ha infiammato la Giara, quasi le due opere si sfiorassero nei percorsi descrittivi del mondo agreste. Ma in Cavalleria l’impasto timbrico non esita a farsi chiaroscurale, atmosferico, talvolta enfatico nell’accentuare taluni dettagli strumentali, sempre accattivante nell’istrionico fraseggio orchestrale, diverso da situazione a situazione, personaggio a personaggio.

Il parterre vocale, infine, non convince appieno. Così come nella recente recita genovese, ritroviamo Sonia Ganassi come elemento di punta della compagnia per la grande intensità interpretativa, offuscata appena da qualche sbavatura d’intonazione nel duetto. Ad ascoltare Marco Berti, invece, non si può fare a meno di pensare al vocicidio: materiale di gran lusso, sperperato dall’incuria tecnica nonché da una musicalità rabberciata alla meno peggio. Turiddu inascoltabile. Nel ruolo di Alfio Gëzim Myshketa, in sostituzione del previsto Marco Vratogna, esibisce una voce bella e ben educata, mentre non si discostano dall’ordinaria routine la mamma Lucia di Michela Bragantin e Clarissa Leonardi nel panni di Lola. Imponente come sempre la prova del Coro del Teatro Regio di Torino, istruito dal Maestro Andrea Secchi, a cui non è seconda l’Orchestra, in gran spolvero nonostante le tensioni di cui tutti abbiamo letto.

Teatro non propriamente gremito, pubblico rumoroso, ma successo conclamato per tutti.


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