Il purgatorio e la Peri
di Giuseppe Guggino
Presentato in forma (quasi) scenica sotto l’egida del collettivo Anagoor, lo sfuggente e misterioso oratorio profano di Robert Schumann archivia al Massimo di Palermo una stagione sabbatica per il teatro. Eppure la potenza del linguaggio video non pare sposarsi con la musica, fermando la Peri appena alle soglie del purgatorio.
Palermo, 24 ottobre 2019 - Difficile, se non impossibile, sarebbe tentare di classificare l’op. 50 di Schumann secondo precisi canoni formali e stilistici; lavoro di certo non immemore degli oratori di Haydn, si presenta arcano, misterioso, problematico sin nell’inquadramento del percorso escatologico inverso che vede la Peri, personaggio femminile della mitologia persiana, alle prese con un rientro sulla terra in cerca di un dono per garantirle l’ammissione al Paradiso.
Il testo del poeta irlandese Thomas Moore, che tanto aveva affascinato un Robert Schumann ancora al riparo – ancora non per molto – da turbe psichiche, al punto da farne una riduzione di versi in tedesco, febbrilmente messa in musica nella prima metà del 1843 ed eseguita nello stesso anno a Lipsia con non scontato successo, pone altrettanti problemi teatrali: a parte il personaggio della Peri (soprano), le altre parti alternano senza soluzione di continuità momenti di azione a passi con funzione meramente narrativa. Le forme musicali, quanto mai fluide nel rivestire un testo poetico sì eterogeneo, oscillano dal recitativo accompagnato (in genere appannaggio della corda tenorile, privilegiata quando deve assolvere alla funzione di narratore) al lied, fino a numeri chiusi di forgia più palesemente operistica. La ricerca del dono per l’ammissione all’Eden – o Paradiso che dir si voglia – porta la Peri nella prima parte in India a raccogliere invano il sangue d’ein jüngling (ancora una volta il tenore, intonato dal pregevole timbro di Maxmilian Schmitt) che sfida il tiranno Gazna (basso) avendo la peggio. Rimaste serrate le porte dell’Eden, la ricerca prosegue in Egitto dove un coro di geni (non esente da debiti verso Weber) si fonde al lied della Peri sovrapponendovisi: il dono sarà quindi l’ultimo respiro d’una jungfrau (secondo soprano, impersonato da una notevole Valentina Mastrangelo) vittima della peste. Anch’esso però è respinto dall’Angelo (intonato dalla garbata voce di mezzosoprano di Atala Schöck), cosa che induce la Peri in un temperamentoso arioso a intraprendere una nuova ricerca, in Siria, sulle rive del Giordano, introdotta dalla suadente narrazione del baritono (un Albert Dohmen più a suo agio qui che non come basso nel primo pannello dell’oratorio). Man mano che la ricerca procede la vocalità della Peri (il soprano Sarah Jane Brandon, che comincia alquanto maluccio, a dire il vero) si lascia avvincere nelle spire sempre più romantiche della scrittura schumanniana, che culmina nel dono decisivo: il pentimento di un criminale alla vista di un bimbo in preghiera; e il numero conclusivo bipartito con apoteosi del coro di spiriti beati è inevitabile.
Entra nell’Eden la Peri ma non l’Orchestra del Teatro Massimo che, eccettuati alcuni commenti preziosi da parte di ottoni e legni, soffre di una realizzazione musicale troppo dimessa e incolore fra gli archi. E su tale base anche l’approccio alla scrittura schumanniana di Gabriele Ferro, già responsabile di una notevole Genoveva qualche anno fa, volutamento pacato, antiromantico, ascetico, non può che risultare azzoppato, al pari della parte visiva, concepita con la pretesa alta dello spettacolo politicamente impegnato ed inciampata fra le tavole del palcoscenico. Poteva e doveva sparigliare il collettivo Anagoor alle prese con un problematico testo non teatrale e invece Simone Derai e relativo team scelgono di non scegliere: ne deriva una versione scenica che di fatto è oratoriale con Orchestra a piano di platea e Coro fermo, spartito alla mano, a tergo su una gradinata coronata da un piano inclinato e null’altro; l’ambiguità dei solisti – talvolta personaggi, talaltra narratori – è irrisolta, esattamente come lo sarebbe in forma di concerto, né le proiezioni che sulla carta avrebbero potuto catalizzare e moltiplicare gli effetti musicali sembrano registrare affinità con la lettura di Ferro. Ne rimane qualche simbolo (criptico, per la verità: la parola “Allah” scritta al neon in arabo, che si oscura a inizio spettacolo e fino alla sua conclusione per tramite dello schermo quadrato impiegato per le proiezioni, a rappresentare la chiusura e la riapertura delle porte dell’Eden), un interminabile shooting di volti mediorientali per la prima parte, un inseguimento lui-lei fra le sale del museo egizio di Torino per la seconda, e immagini di distruzione per la terza. Tutto scorre, ma nulla si imprime alla memoria per aver trovato la giusta chiave del percorso catartico essenza dell’oratorio.
Se quindi ci si ferma appena al purgatorio su quasi tutti i fronti, anche sul quello del programma di sala che immola il saggio musicale all’altare della political correctness per far spazio al testo a fronte quadrilingue (tedesco, inglese, italiano e arabo) non si deve però tacere di ciò che raggiunge davvero i giardini dell’Eden: il Coro del Massimo, transitato di bene in meglio dalla guida di Piero Monti a quella di Ciro Visco, che mai come in questa occasione aveva saputo esibire duttilità, esattezza e convinzione.
foto Rosellina Garbo e Franco Lannino