La storia di Angelica
di Antonino Trotta
Nel dittico Suor Angelica/Cavalleria rusticana andato in scena al Teatro Coccia di Novara, si apprezza l’arguta regia di Gianmaria Aliverta e l’ottima prova di Marta Mari nel duplice ruolo di Angelica/Lola.
Novara, 14 dicembre 2019 – Solo una madre può comprendere le pene di una madre: quale conforto suor Angelica può ricevere in un convento di clausura? Lei che sgrana rosari per numerare il trascorrere dei giorni piuttosto che innalzare inni alla Madonna; lei che nel dolore per la separazione dal figlio – «veduto e baciato una sola volta!» –, di cui forse ricorda solo le sofferenze del parto, preserva la propria umanità senza mai assoggettarla pienamente al futuro che altri hanno scritto in sua vece; lei che sembra rifugiarsi nella fede solo quando la disperazione le toglie definitivamente fiato e lucidità. E se la Vergine stavolta non concede alcun miracolo, sta a Gianmaria Aliverta compiere un prodigio: rendere Suor Angelica di Puccini ancor più angosciante di quanto già non lo sia.
In una visione che abbraccia in realtà un progetto ben più sfidante, quello di collegare il secondo capitolo del Trittico pucciniano con Cavalleria rusticana di Mascagni, Suor Angelica gode di un’intensità assoluta – cioè indipendente dalla visione d’insieme del doppio allestimento – perché Aliverta sa porre l’accento sul dolore e sulla sua incomunicabilità. Esiliata in un chiostro che odora di prigione – le scenografie, essenziali, sono di Francesco Bondì –, sola tra donne che a malapena accennano alla propria femminilità negli abiti monacali decorati – Sara Marcucci firma i costumi, lineari – e che risultano a tutti gli effetti umanoidi di cui l’indottrinamento violento ha divorato il carattere, Suor Angelica individua nel ricordo della vita passata – indotto da una serie di cimeli gelosamente custoditi nella sua celletta – il baluardo della propria umanità. Cosa le impedisca di lanciarsi cecamente nel baratro della religiosità cieca è presto detto: la speranza di riabbracciare quel figlio mai morto, il rimorso per la morte di Turiddu. Si, Turiddu. Perché nel tentativo di fare dei due atti unici momenti progressivi di una stessa storia, Aliverta immagina un intreccio di destini, un unico filo conduttore che da Mascagni guida verso Puccini. Suor Angelica è in realtà Lola, rinchiusa in clausura per espiare la scappatella con Turiddu, padre del bambino concepito in chiesa sotto lo sguardo di gesso della Madonna. Ecco allora che la Zia Principessa, in una sorta di trasformismo genealogico, si rivela null’altri che mamma, anzi a questo punto, nonna Lucia, suocera abietta della povera Angelica. Un plot, questo di Aliverta, che pur sembra recare disturbo a qualcuno nonostante, tutto sommato, l’ininfluenza – a eccezione magari dell’intervento di Santuzza nel finale di Suor Angelica, quando le porge il coltello invitandola al suicidio – di tale soluzione sull’economia drammaturgica di ambo i lavori. Aliverta, comunque, si addentra anche oltre la consequenzialità delle trame e sottolinea arguti parallelismi nei due microcosmi – quello del convento e della piazza cittadina – entro cui si sviluppano le narrazioni, inspessendo certo il valore della propria intuizione che altrimenti rischia di essere appesantita da un utilizzo generoso di connessioni e rimandi.
Decisamente meno intrigante il versante musicale: l’Orchestra Filarmonica Pucciniana suona male e il Coro Ars Lyrica – istruito da Chiara Mariani e vuoto nelle sezioni maschili – fa il meglio che può. Alla guida degli scapestrati complessi Daniele Agiman propone senza dubbio una concertazione corretta, non priva di momenti esaltanti – molto bella la sfuriata di Alfio in Cavalleria – ma che nemmeno rende appieno i chiaroscuri di una partitura sublime come quella di Suor Angelica. Quanto al parterre vocale, Marta Mari, nel duplice ruolo di Angelica e Lola, si lascia ammirare per la generosità del volume, la bellezza dello smalto, l’accuratezza delle dinamiche – magnifico il do fuori scena – e la purezza dell’accento: redenta da chissà cosa, la sua Angelica è virginale nell’animo e «Senza mamma», cantata con fraseggio sensibile, vibrante e fortemente emotivo, segna il punto più alto di tutta la serata. Quindi Donata D’Annunzio Lombardi, artista d’esperienza e cantante carismatica che tiene la scena con fare da vera prima donna. Per quegli sfoghi nel registro grave che non appartengono alla sua vocalità, Santuzza le sta forse un po’ larga. Ciononostante risolve il ruolo con classe, canto elegante e ricco di sfumature, proponendo un personaggio tormentato e pieno di nuance. Lodevole, oltre che provvidenziale, il suo intervento durante il «Regina coeli» per coordinare gli attacchi del coro, in quel punto allo sbaraglio. Ben figura anche Anastasia Boldyreva (zia Principessa/ mamma Lucia), forte di uno strumento mezzosopranile corposo e vellutato. Professionale Sergio Bologna nei panni di Alfio, censurabile in toto la prova di Aquiles Machado, Turiddu stentoreo e privo di ogni fascino.
Più o meno dignitoso il resto del cast: Lucrezia Venturiello (Badessa), Elena Caccamo (suora Zelatrice), Eva Maria Ruggieri (maestra delle novizie), Giulia De Blasis (suor Genovieffa), Veronica Niccolini (suor Osmina), Laura Esposito (suor Dolcina), Veronica Senserini (suora infermiera), Valentina Saccone (prima novizia), Laura Scapecchi (seconda novizia), Isabel Lombana Mariño (prima cercatrice), Sofya Yuneeva (seconda cercatrice), Sabrina Sanza (prima conversa), Galina Ovchinnikova (seconda conversa).
foto Mario Finotti