I primi quarant'anni
Il Galà per i quarant'anni del Rof, fra opera seria e buffa, colonne storiche del festival, debutti e nuove leve, racconta un percorso che si rinnova nel tempo, senza mutare d'identità, un percorso fatto di successi e contrasti, ma sempre teso in un meraviglioso progetto ideale.
PESARO, 21 agosto 2019 - Scambiando qualche parola in attesa della navetta per la Vitrifrigo Arena, un ragazzo mi chiede se in quarant'anni il Festival sia cambiato molto. Certo che è cambiato, come è giusto e inevitabile che sia: nulla può vivere restando sempre identico e immutabile. Cambiano le persone, con i loro pregi e i loro difetti, con le loro predilezioni, interessi, sensibilità e competenze, al timone, fra gli interpreti e nel pubblico. Cambiano i tempi, cambia il mondo, cambiano (non necessariamente in meglio o in peggio: semplicemente cambiano) i modi di vivere la musica e il teatro, ma resta saldo il principio di un progetto costruito intorno a un compositore, di una riscoperta che non si esaurisce nella riproposta dell'opera omnia, bensì si costruisce ogni giorno in uno studio continuo, in nuove interpretazioni, riflessioni, sperimentazioni. Un percorso che resta necessario, sia come "laboratorio di musicologia applicata" (per usare le parole di Gianfranco Mariotti) in senso lato, come modello per tutto il teatro musicale, sia nello specifico di un musicista così complesso, enigmatico, autore di capolavori ancora troppo poco compresi e frequentati.
Qualcosa, però, in effetti, in questi quarant'anni è cambiato in peggio. È la questione degli spazi, che dal Rof 2006 ha imposto di rinunciare al palazzetto dello sport - adattato nell'estate come Palafestival - in città e trasferirsi per alcuni spettacoli in periferia, in un altro stadio trasformato in teatro, l'Adriatic Arena, poi ribattezzata Vitrifrigo Arena, teoricamente - lo ricorda un pannello nell'atrio - intitolato a Olympe Pélissier, seconda moglie del maestro. Da due teatri gemelli si è passati a un'unica sala, cercando di fare il meglio quanto ad acustica e visuale, ma non si può dire che di fronte alle intemperie (rimbombo insostenibile dei temporali, gocce fin sul pubblico) l'Arena si sia comportata benissimo, né che poltrone e pavimentazione siano immuni da cigolii fastidiosi. Dal punto di vista scenotecnico, è vero, si conferma che la struttura funzioni assai bene, ma il disagio della collocazione fuori città non è solo per l'obbligo delle navette (messe a disposizione gratuitamente) o comunque di trasporti motorizzati: si arriva e, appena finita l'opera, si parte, senza la serenità di indulgere negli applausi finali, ma soprattutto senza poter coltivare quel clima di condivisione che è il sale del festival e che dal 1980 al 2005 si alimentava anche negli spazi ravvicinati per prove, spettacoli, conferenze, spiaggia, conviti, convivi, libagioni, confronti, dibattiti. Insomma, è pur vero che lo spazio extraurbano convenga per capienza, che la pianta rettangolare favorisca la visibilità e l'ampiezza del retropalco sia utile per moderni allestimenti, tuttavia sull'altro piatto della bilancia sta una serie di problemi anche sostanziali per lo spirito del festival, che negli anni ha creato una coesa comunità, e l'attesa della riapertura dell'annunciato Pala Scavolini in città si fa sempre più dura. Perfino la Vitrifrigo Arena sembra voler lanciare un segnale quando, nel bel mezzo del duetto fra Guillaume Tell e Arnold in questo Galà per i quarant'anni del Rof, una o due poltrone di galleria cedono pesantemente, senza danni ma con un certo spavento per chi si trova nei dintorni.
Tutto scorre, ma il fiume resta lo stesso, non cessa il suo viaggio, perché il viaggio è la sua natura, portare acque sempre fresche e nuove, anche a costo di qualche intralcio sul percorso. Questo è quello che ci racconta anche il Galà Rof XL, in cui i numeri romani alludono anche alla sigla della taglia forte di un Festival in continua espansione, fra collaborazioni e attività collaterali. Una prima parte dedicata all'opera buffa rossiniana, che la tradizione aveva mantenuto popolare, ma che il Rof ha riscattato dalla buffoneria farsesca per evidenziarne gli aspetti più ambigui e sofisticati; una seconda parte seria in cui la fanno da padroni la più visionaria delle tragedie napoletane qui riscoperte, Ermione, e il grande testamento francese, Guillaume Tell, che a Pesaro, nell'integralità, ha riaffermato la sua vera dimensione. Nel cast - tanti, tanti nomi verrebbero in mente, ma radunarli tutti sarebbe impossibile - si avvicendano diverse generazioni di colonne storiche del Festival, giovani leve e un paio di debuttanti. Questi ultimi sono Angela Meade e Franco Vassallo, la prima già affermatasi soprattutto oltreoceano in titoli come Semiramide e Armida, innamorata del personaggio di Ermione (come darle torto?) che ha cantato anche con la direzione di Alberto Zedda e tornerà a interpretare in novembre a Napoli. Un curriculum rossiniano di tutto rispetto per una voce di notevole ampiezza, i cui armonici restano a riverberare impudenti in sala dopo essere stati vibrati con travolgente energia. Espunta dal programma all'ultimo per un'indisposizione del tenore Sergey Romanovsky la grande aria di Pirro, spetta a Meade celebrare con i quarant'anni del Rof i duecento di Ermione con la sublime Gran Scena, resa con trasporto entusiastico che, certo, in una produzione accuratamente provata con direttore e regista potranno essere indirizzati verso un grande profitto. Corona, infine, la serata partecipando come Mathilde al conclusivo "Tout change et grandit en ces lieux". Non è altrettanto assiduo sul campo rossiniano Franco Vassallo, che non convince né per stile né per comunicativa nella cavatina di Figaro e nell'aria di Tell, di cui, peraltro, la locandina annoverava già i due eccellenti interpreti dell'opera completa al Rof, Michele Pertusi (1995) e Nicola Alaimo (2013). Proprio Pertusi torna all'eroe elvetico duettando con Juan Diego Florez e nell'inno conclusivo alla libertà, dopo aver dato sfoggio del suo talento comico nel finale primo dell'Italiana in Algeri: solo un cantante della raffinatezza di Pertusi può permettersi di caricare a quel modo i "Bum Bum" di Mustafà senza uscire dal buon gusto, passando poi a Tell con l'intensità d'un fraseggio nobile e ispirato. Compare solo per un'aria, invece, Nicola Alaimo, che per versatilità e assiduità a Pesaro (Dandini, Don Bartolo, Don Geronio, Don Pomponio Storione, Guillaume Tell, il duca d'Ordow...) pare aver seguito le orme del collega parmigiano: oggi debutta al Rof come Don Magnifico e il suo "Sia qualunque delle figlie" è un'autentica meraviglia di sillabato preciso, ficcante, timbratissimo, chiaro nella pronuncia, arguto nell'intenzione, capace perfino di variazioni nitide e significative nell'articolazione più incalzante. Inutile dire che riscuota fra gli applausi più fragorosi della serata, insieme con Pertusi (che però non si esibisce in alcun assolo), Meade, Florez e Brownlee. I due tenori si spartiscono equamente gli onori: lo statunitense partecipa al finale primo dell'Italiana e si impone con un'ottima esecuzione di "Cessa di più resistere", in cui fa valere tutta la sua sicurezza di belcantista attento a ogni nota, a ogni parola. Florez, dal canto suo, incontra ancora una volta l'affetto del pubblico del festival che l'ha visto nascere, e cui è sempre grato, rievocando momenti cruciali della sua carriera non solo pesarese con l'aria di Don Ramiro, il duetto e l'aria da Guillaume Tell. Terzo tenore avrebbe dovuto essere Sergey Romanovsky, ma, come si diceva, un'indisposizione lo ha costretto a rinunciare. Niente "Balena in man del figlio", dunque, mentre il duetto dal Viaggio a Reims "D'alma celeste, o Dio" passa al giovane Ruzil Gatin, allievo nel 2016 dell'Accademia rossiniana. Il tenore conferma di possedere un mezzo vocale di tutto rispetto, con una facilità notevole nel reggere le tessiture acute (e cantare ai vertici del pentagramma è ben diverso dallo schioccare singole note o cadenze) e in confronto alla Riconoscenza ascoltata pochi giorni prima si mostra anche più spigliato e accattivante con interprete, sicuro si sé, nonostante la sostituzione all'ultimo, sia in una parte che conosce bene, sia nelle brevi e fondamentali frasi di Oreste nella Gran Scena di Ermione. Solo nella prima parte buffa del concerto si incontrano, infine, Paolo Bordogna e Anna Goryachova. Il primo ricorda il suo pregnante contributo al repertorio comico, e alla storia recente del Rof, con l'aria di Don Bartolo e come Taddeo nel finale primo dell'Italiana, brano in cui ritroviamo anche l'Isabella (vista a Pesaro nel 2013) della seconda, che impegnata in precedenza nel duetto dal Viaggio a Reims con Gatin.
Claudia Muschio, Valeria Girardello e Carlo Cigni (in sostituzione di Mirco Palazzi, assente per gravi motivi familiari) completano la locandina come Elvira, Cleone e Jemmy, Zulma ed Edwige, Haly, Fenicio e Walther.
Carlo Rizzi, altra vecchia conoscenza del Rof, dirige con l'usato mestiere contando sulla qualità dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, uno splendore per nitore, incisività, smalto e spessore espressivo in tutte le sezioni (che piacere ascoltare anche ottoni e percussioni così duttili e a fuoco!). Il coro del Teatro Ventidio Basso preparato da Giovanni Farina contribuisce al successo della serata scandita da due grandi assiemi. Da un lato la più pura espressione del comico rossiniano straniante, folle e perfetto nel finale primo dell'Italiana in Algeri, dall'altro l'inno sublime a un ideale nell'epilogo di Guillaume Tell. Qui, sei anni fa, nel memorabile allestimento firmato Mariotti-Vick, queste note accompagnavano l'apparizione di una scala infinita verso il cielo. Questo è l'auspicio, il futuro del Festival come lo vediamo stasera: un cammino continuo, verso mete sempre più alte.