Voci ammalianti, abbracci mancati
di Irina Sorokina
La traviata riporta l'opera a Modena, in forma scenica secondo le norme di distanziamento anti Covid. Lo spettacolo di Stefano Monti emoziona trasformando le restrizioni nell'amplificazione della solitudine di Violetta, una commuovente Maria Mudryak affiancata dai non meno validi Matteo Lippi ed Ernesto Petti
MODENA, 18 ottobre 2020 - In una Modena “carina e piccolina” come la chiamano alcuni modenesi, un evento di grande valore artistico e indiscutibile bellezza. Mettere uno spettacolo in scena ai tempi del Covid-19 è una sfida e molti teatri non ci provano nemmeno, limitandosi di una serie di concerti. E se alla fine sul cartellone appare un titolo operistico, sempre di concerto si tratta. Così nella vicina Verona.
Nella città emiliana la sfida è stata accettata; al pubblico parecchio stanco di assistere a dei concerti e desideroso di vedere uno spettacolo d’opera completo è stata offerta un’opportunità. La stagione in corso si è aperta con La traviata, un titolo verdiano sempreverde e amatissimo, “condannato” al successo.
In pieno rispetto delle restrizioni legate al virus, il demiurgo della produzione Stefano Monti, che ha firmato regia, scene e costumi, ha ridisegnato lo spazio facendo della platea il palcoscenico e del palcoscenico il golfo mistico mentre al pubblico debitamente distanziato non è rimasto che accomodarsi nei palchi e nel loggione: una soluzione risultata vincente per quanto snella e dinamica. Lo spettacolo di Monti potrebbe essere definito semi stage, visto che ha optato per una cornice sostanzialmente “povera” e pochi colori, tutti essenziali, tuttavia la sua resa ha permesso di equipararlo ad una produzione completa. Pochi elementi scenici, due cornici rosse per far agire le comparse, un tavolo lungo dello stesso colore, un pavimento verde, un letto: ipotizziamo che il rosso allude alla passione e il verde al gioco. Sarebbe facile parlare di una solida tradizione; difatti, nella Traviata modenese non c’erano sensi aggiunti, sconvolgimenti, volgarità o cose scioccanti. Il virus maledetto, il Covid-19 che ha imposto a tutti il distanziamento sociale, ha fatto il suo capolino nella sala del Teatro Comunale e si è intromesso nel lavoro del regista obbligandolo a far mantenere le distanze tra gli interpreti. I mancati ravvicinamenti e abbracci proibiti fanno fatto emergere la solitudine immensa di Violetta. Non solo ha svolto un lavoro intelligente con gli interpreti, Stefano Monti ha gestito benissimo anche le masse e creato una bella complicità col coreografo Tony Contartese.
Ma la forza più grande della produzione modenese è stato decisamente il cast pressappoco perfetto e affiatato, a cominciare dalla giovane Maria Mudryak nel ruolo del titolo con tutte le carte in regola per impersonare il personaggio di Violetta, la più bella e commuovente creatura verdiana. La Mudryak (nata in Kazakistan, naturalizzata italiana e formatasi al Conservatorio di Milano) ha soli ventisei anni ed è in possesso di un physique du rôle senza un minimo difetto, mora, graziosa, dalle movenze naturali e gesticolazione nobile e credibile; ha sfoggiato voce bella e morbida dai molti colori e sottili sfumature e buona tecnica, in grado di produrre emozione autentica nell’ascoltatore. Le sono state perfettamente consone le note dolenti del ruolo (rimangono memorabili le battute nella scena di gioco, “Amami Alfredo” intonato nel modo sublime e un toccante “Addio del passato”) mentre le agilità in “Sempre libera” sono risultate imprecise e l’acuto finale poco felice. Questi difetti che avrebbero condannato a un giudizio severo un’altra interprete, meno bella, credibile, sincera e commuovente, sono stati perdonati volentieri al giovane soprano, anche per la sua grandissima musicalità e rarissima leggerezza. Lodevole anche la sua capacità di vestire gli abiti d’epoca, nel nostro caso del secondo Ottocento; la piuma dell’acconciatura avrebbe rischiato di rendere ridicola un’altra interprete, ma alla Mudryak stava benissimo.
Anche due uomini che hanno determinato il triste destino della deliziosa cortigiana verdiana sono stati, senza esagerazione alcuna, fantastici nella produzione modenese: Matteo Lippi – Alfredo e Ernesto Petti – Giorgio Germont, classe 1984 il primo e 1986 il secondo, già gli artisti completi e maturi, ma felicemente non toccati dallo spirito della routine. Il genovese Matteo Lippi, formatosi sotto la guida di Mirella Freni e vagamente somigliante al Big Luciano, ha sfoggiato timbro decisamente gradevole e uno squillo raro; la sua forza sono stati l’accento e il fraseggio, davvero impeccabili. Si è disimpegnato con onore nel Brindisi e in “De’ miei bollenti spiriti”. Ha disegnato un Alfredo impetuoso e immaturo, una specie di ragazzotto di campagna, giocando la carta del proprio fisico un po’ goffo. Ne è venuto fuori un personaggio molto credibile, che anche al giorno d’oggi ognuno di noi potrebbe incontrare; un giovane uomo incapace di cogliere i segnali mandati dall’interlocutore, nel nostro caso dalla donna tanto amata. Una certa impressione, se non sgomento, è stata prodotta nel momento di “Amami Alfredo”: il suo Alfredo non ha trovato di meglio che sdraiarsi comodamente sul pavimento. L’arrivo nel secondo atto di Ernesto Petti nei panni del ”papà Germont” ha impreziosito lo spettacolo ulteriormente. Nel panorama operistico italiano abbiamo tanti valorosi baritoni, eppure il cantante di Salerno si sarebbe fatto valere in ogni occasione. Ha saputo nascondere i suoi anni e apparire perfettamente come un uomo di mezza età, portare l’abito e usare il bastone come pochi sanno fare, calarsi perfettamente nei panni di un borghese tanto impeccabile quanto codardo e a tratti aggressivo. Il timbro seducente, i chiaroscuri ricchissimi e la parola cantata da manuale: abbiamo avuto fortuna di avere un Germont ideale accanto a un Alfredo ideale.
Tra i comprimari si sono distinte soprattutto Ana Victoria Pitts – una Flora dalla grinta molto apprezzata e dal timbro asprigno - e Lucia Paffi – un’Annina dolce e partecipe; molto bene anche gli interpreti dei ruoli maschili: Antonio Mandrillo – Gastone, Daniel Kim – barone Douphol, Alex Martini – marchese d’Obigny, Alessandro Vannucci – Giuseppe, Paolo Marchini – un domestico e un commissionario. Un gran bel lavoro è stato fatto da Stefano Colò che ha preparato il Coro Lirico di Modena e hanno riscosso un dovuto successo ballerine soliste Martina Monaco e Francesca Martignetti.
Alla guida dell’Orchestra Filarmonica Italiana Alessandro D’Agostini ha meritato lodi sincere; ha condotto i musicisti con mano delicata, ma ferma, mettendosi totalmente al servizio della partitura verdiana, adottando i tempi sempre giusti e valorizzando le bellissime voci dei cantanti. La velocità elevata della scena di gioco ci è sembrata ispirata alla memorabile interpretazione della Traviata di Riccardo Muti con Tiziana Fabbricini nel ruolo di Violetta. Col grande piacere si sono ascoltate le seconde strofe di entrambe le arie di Violetta, spesso tagliate senza alcuna pietà.
Non poteva che essere un successo e così è stato. Notiamo tra parentesi che domenica 18 ottobre La traviata modenese è stata trasmessa in streaming dal vivo seguita da un pubblico enorme da tutto il mondo, ma la maggior parte è stata di provenienza russa. Molti ascoltatori non conoscevano il Teatro Comunale Luciano Pavarotti e dopo il giudizio entusiastico hanno dichiarato di volerlo seguire in streaming in futuro. Meglio di così?