In barba al Barbiere
di Antonino Trotta
Si appaga il pubblico e si mortifica Rossini: il Teatro Carlo Felice di Genova fa bella mostra di come non si dovrebbe mai fare Il barbiere di Siviglia.
Genova, 19 gennaio 2020 – «Faticar poco, divertirsi assai, e in tasta sempre aver qualche doblone…». Eh già, al Carlo Felice di Genova Figaro l’hanno preso in parola. Del resto se il momento migliore della serata è la scena di Berta – l’apprezzabile Simona di Capua, al di là della giovane età, canta con gusto l’aria di sorbetto della governante, sola sul palcoscenico al cospetto delle poetiche scenografie del compianto Lele Luzzati e con indosso uno dei bellissimi costumi di Santuzza Calì –, è evidente che in questo Barbiere di Siviglia, diretto registicamente male e musicalmente peggio, non torna un accidente. E così, poveri noi, di uno dei capolavori di Rossini non resta praticamente traccia.
Filippo Crivelli, in primo luogo, fa esattamente quello che in questo meccanismo perfetto non si dovrebbe mai fare: trasformare la più eccelsa espressione dell’opera buffa in una farsa spicciola, rimpinzare una commedia di sì levato profilo in uno spettacolo di cabaret dove lazzi e stupidaggini varie devono necessariamente rincorrersi fino allo sfinimento per istigare quella risatina facile che nasce e si esaurisce in men che non si dica perché fuoco fatuo alimentato da pagliuzza. Ciò anche a costo di scavare voragini nella trama, della cui consequenzialità logica Crivelli non sembra nemmeno interessarsi. È antipatico dover chiamare in causa l’aderenza alle indicazioni del libretto di Sterbini, anche perché andrebbero contestualizzate in un’epoca dove ancora la figura del regista non era definita. Se tuttavia nel finale primo c’è scritto «L’Ufficiale […] vuol fargli un inchino, il Conte lo trattiene» è perché evidentemente non è ancora il momento di informare il mondo circa la vera identità di Lindoro: qui invece il soldato se ne sta beatamente genuflesso per tutto il largo concertato, ma a nessuno dei presenti sorge qualche dubbio. D’altro canto la bella Rosina è ora un’oca giuliva e se a fine giornata non ha ancora capito chi è chi, non ci sorprendiamo nemmeno più di tanto.
Quanto alla direzione, è peggio che andar di notte. Anche portando in conto lo spaesamento dinnanzi alla scrittura rossiniana – dinamiche ferruginose e nessuna teatralità nella resa delle preziosità strumentali di cui abbonda la partitura –, risulta difficile soprassedere sulla pessima concertazione di Alvise Casellati, i cui nodi vengono al pettine fin da subito. La sola ouverture già evidenzia un’esuberanza ritmica che nel corso dell’opera si rivelerà poi fatale. Non c’è una stretta che non mandi all’aria la coordinazione col palcoscenico: quella dell’introduzione ad esempio, col coro del Teatro Carlo Felice istruito da Francesco Aliberti, è imbarazzante. Gli tiene testa solo Paolo Bordogna (Bartolo), rossiniano che più rossiniano non si può, comunque costretto a sacrificare la nitidezza del testo – e per buffo d’eccellenza è tutto dire! – pur di non perdere un battito della sua magnifica aria. Le cose, comunque, non migliorano nemmeno laddove il tempo conceda più respiro: «Contro un cor» e «La calunnia» fanno venire semplicemente il mal di mare.
Ci sono persino gli immancabili problemi tecnici, stavolta legati a un’interferenza elettromagnetica tra un dispositivo elettronico – probabilmente un cellulare – e la tastiera digitale – utilizzata per l’irruento accompagnamento dei recitativi – che genera un frastuono assordante durante la prima scena.
A questo punto ci si dovrebbe lamentare dei tagli ai recitativi, alle riprese, alle arie – è sbagliatissimo, proprio livello drammaturgico, eliminare l’aria finale del Conte – ma, in tutta sincerità, in tale circostanza sembrano manna dal cielo. Anche perchè, se Almaviva è Matteo Macchioni, si fatica a immaginare cosa di buono avrebbe potuto cavare dal rondò finale. Per carità, “salva” la recita in sostituzione dell’indisposto René Barbera, ma la voce è piccola, l’acuto nasaleggiante e le agilità piuttosto limitate. Rosina è Annalisa Stroppa, mezzosoprano dalle buonissime qualità vocali nonostante la poca consistenza del registro grave e l’acuto invero violento. Alessandro Luongo è un Figaro dalla vocalità possente ma monocorde, misurato – fortunatamente – nel fraseggio e laborioso in virtuosismo non sempre perfettamente oleato. Paolo Bordogna s’impossessa, com’è sua consuetudine, della scena. Corretto e nulla più il Don Basilio di Giorgio Giuseppini, ottimo Roberto Maietta nel ruolo di Fiorello.
Teatro tutto esaurito, applausi fastidiosamente entusiasti che fanno capire come mai si legittimino certi scempi. Recita, quantomeno personalmente, da dimenticare al più presto.
foto Marcello Orselli