L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il museo delle cere

di Antonino Trotta

Tra quadri di Leonardo e Raffaello, quadra poco o nulla Il trovatore al Teatro Alla Scala firmato da Alvis Hermanis e diretto da Nicola Luisotti.

Milano, 15 febbraio 2020 – Di pire ardenti non si vede nemmeno l’ombra nonostante di cera, sul palcoscenico, ce ne sia in abbondanza. Alvis Hermanis, nel concepire la sua messinscena insulsa, deve essersi evidentemente ispirato al celeberrimo museo di Madame Tussauds: tantissimi quadri sullo sfondo e altrettante belle statuine in proscenio, che nulla fanno se non sbracciarsi nelle solite plastiche pose, appunto da museo delle cere. Anzi qualcuno, ogni tanto, si concede un riposino su una panca apparentemente comodissima. Beati loro. La zavorra del Trovatore scaligero, di fatto, non è l’idea di fondo con cui Hermanis decide di interpretare l’opera notturna per eccellenza, ma come l’idea di fondo è stata sviluppata, o meglio come non è stata sviluppata, per avvalorare quell’idea. Del resto Il trovatore è l’opera del racconto, inizia con un racconto e trova la sua apoteosi drammatica in un racconto: dotare allora celeberrimi dipinti rinascimentali di un potere evocativo misterioso e tale da possedere i dipendenti del museo, qui dove la musica sembra ancora nutrirsi delle stesse suggestioni demoniache del Macbeth, è una soluzione, ancorché insidiosa, che potrebbe avere del potenziale. E infatti la prima scena, con Ferrando che illustra l’antefatto a un manipoli di grezzi turisti, funziona assai bene. Poi però, in un Trovatore quasi integrale, non succede più nulla, e se succede qualcosa è addirittura peggio: il Conte che canta «Il balen del suo sorriso» guardando fisso Ferrando negli occhi, dopo averlo preso per mano e condotto a sedere su un romantico scanno, questo no, non s’era mai visto. Insomma, non si addiviene a conclusione alcuna, né si colgono segnali che possano aiutare a capire dove il regista voglia andare a parare. Le scenografie di Uta Gruber-Ballehr e dello stesso Hermanis son belle, questo sì, ma si arrogano la responsabilità di spacciare per “moderno” uno spettacolo della peggiore “tradizione”, ed è difficile digerirlo.

Poco meglio il frangente musicale giacchè nella pur lussuosa compagnia nessuno spicca, se non negativamente. Francesco Meli canta Verdi alla Scala, quindi gioca due volte in casa. Il suo problema però è il do, anzi il si della «pira»: un problema che non si palesa nella puntatura in sé, quanto nella prospettiva della puntatura, che depaupera l’eleganza del suo canto e gli procura altresì un brutto scivolone alla fine della ripresa. Per fortuna Manrico non è solo la suddetta cabaletta e Meli sa far valere altrove le sue ragioni di fraseggiatore raffinato e colorista eccelso, tant’è che il suo ufficiale del principe Urgel rimane uno dei più sfumati mai ascoltati, migliore incarnazione dell’eroe con liuto in una mano e spada nell’altra. Non si può dire la stessa cosa di Massimo Cavalletti, Conte di Luna piuttosto rodato eppure tuttora grossolano in tutto, dall’espressione a all’intonazione – il terzetto è terribile, la salita al sol sulla frase «io del mio rival sentir pietà?», nel duetto con Leonora, di pessimo gusto e pari esito –. L’aristocratico timbro è una magra consolazione. Riccardo Fassi invece è un Ferrando autorevole, vocalmente solido e musicalmente impeccabile.

Maggiori apprezzamenti per il gineceo verdiano. Tra le due signore s’impone l’Azucena di Violeta Urmana, artista dall’innegabile carisma: ogni parola è scolpita con assoluta proprietà d’accento, domina – al netto di qualche impurità in acuto – la tessitura, possiede il personaggio e dona lui vita con pienezza di sfaccettature. Quando apre le valvole Liudmyla Monastyrska è capace di apprezzabilissime cose. La sua è una Leonora di temperamento, incendiaria nel duetto col Conte o nella cabaletta della quarta parte, tuttavia le agilità di grazia non sono il suo forte – meglio, quantunque laboriose, quelle di forza – e per un filato come si deve occorre attendere il finale.

Certo ai cantanti non sono spesso di aiuto le impennate di Nicola Luisotti, estremamente energico nelle strette. La sua è una concertazione ricca di mordente, decisamente enfatica, talora per cupi affondi degli archi gravi, talaltra per improvvise distensioni ritmiche alquanto plateali, e pone spesso in risalto passaggi meno interessanti della scrittura. Luisotti dimostra in ogni caso acuta sensibilità al colore, alle sfumature, alla teatralità innegabile della partitura e nelle oasi di distesa cantabilità mette a segno i momenti di maggior pregio. Di livello la prova del Coro del Teatro Alla Scala, istruito dal maestro Bruno Casoni. Completano correttamente il parterre vocale Caterina Piva (Ines), Taras Prysiazhniuk (Ruiz), Giorgi Lomiseli (un vecchio zingaro) e Hun Kum (un messo).

Serata abbastanza mediocre, generosamente celebrata dagli applausi di un teatro pieno fino all’orlo.


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