L’altra versione, con voci illustri
di Francesco Lora
All’Opéra royal de Wallonie, che festeggia i duecento anni, ecco Don Carlos come Verdi lo consegnò all’Opéra di Parigi. Quattro ore di musica e una compagnia da lucciconi agli occhi: Kunde, D’Arcangelo, Auyanet, Aldrich, Lhote e Scandiuzzi.
LIEGI, 14 febbraio 2020 – Il Don Carlo di norma rappresentato da centotrent’anni a questa parte è quello che Verdi revisionò e diede nel 1884 al Teatro alla Scala di Milano: mediamente tre ore d’ascolto, quattro atti anziché cinque, libretto tradotto in italiano (il compositore, però, lavorò sempre su versi in francese). È una versione nata dall’irritazione dell’autore: fino a quel momento l’opera aveva girato il mondo sfigurata da tagli arbitrari, allo scopo di rendere abbordabile una partitura colossale ed esigentissima. I problemi erano sorti già quando Verdi aveva consegnato la prima stesura all’Opéra di Parigi: nel 1867 i cinque atti del grand opéra corrispondevano a quattro ore di musica, che furono mutilate di una quarantina di minuti già durante le prove, salvo poi dover tollerare l’aggiunta di un balletto poco gradito a Verdi stesso. Queste due versioni principali di Don Carlos / Don Carlo – esistono altri materiali, originali o autorizzati, connessi a ulteriori circostanze – dovrebbero essere note entrambe a chi voglia farsi un’idea esaustiva del più ambizioso, tormentato ed enciclopedico tra i capolavori verdiani: non ne esiste una migliore dell’altra, tra quella parigina (sterminatamente meyerbeeriana, traboccante di rinvii interni, nata già in una prima rifinitezza: non dunque un tavolino zoppo da sistemare) e quella milanese (più concisa, moderna e diretta, divinamente ristrumentata, pena però la perduta relazione fra numerose situazioni teatrali o soluzioni musicali); entrambe si compenetrano, invece, dando luogo a un’opera ideale, fatta di due testi alternativi e mai sintetizzata da Verdi (censurabile è dunque il travaso di pagine dell’una nell’altra, come fatto da George Prêtre, Claudio Abbado e Antonio Pappano tra gli altri: le due stesure rifuggono l’ammorsamento reciproco).
Detto che la versione di Milano 1884 viene oggi rappresentata con regolarità, mentre quella grandiosa di Parigi 1867 rimane una rarità per palati sottili, va detto ancora che a Liegi l’Opéra royal de Wallonie ha messo a punto un colpaccio. Questo teatro non si rassegna a dover reggere lo strascico alla Monnaie di Bruxelles, e nel contempo è uno dei più genuinamente italiani quanto allo spirito che lo anima: offre stagioni complementari a quelle della capitale, è attento al grande repertorio finito negletto, chiama a raccolta voci davvero illustri, va incontro al gusto del pubblico per poi affinarlo. Per sei recite dal 30 gennaio al 14 febbraio ha restituito alle scene l’enorme Don Carlos parigino, con la riapertura dei bruschi tagli storici e con la pacifica omissione del solo pretestuoso balletto. L’allestimento scenico ha regìa di Stefano Mazzonis di Pralafera (anche intraprendente direttore generale e artistico del teatro), scene di Gary McCann, costumi di Fernand Ruiz e luci di Franco Marri, ed è – senza neanche troppa ironia – quanto di più sedizioso e spudorato si possa oggi vedere in teatro: una lettura che tenta il ripristino della tradizione mediante praticabili oleografici, fondali dipinti, abiti ispirati alla quadreria spagnola cinquecentesca e atmosfere soffuse, senza pretendere che i cantanti debbano fare gli attori di cinema a tutti i costi o che i mimi smettano di ricordare i ragazzi presi dalla strada e poco esperti in scena. È uno spettacolo elementare nel linguaggio nonché foriero di una certa tenerezza: piace assaissimo al pubblico locale, non sa cosa sia la sofisticazione e reinventa ciò che doveva essere un’opera lirica ai tempi nei quali era un fenomeno popolare, con la musica in primo piano rispetto alle astratte velleità dei nuovi drammaturghi; è l’innocente riscossa del noble savage.
La superba qualità di scrittura strumentale nel Don Carlos parigino è fuori discussione, e invoca un concertatore che ne evidenzi le peculiarità rispetto al Don Carlo milanese: alla guida delle maestranze valloni, Paolo Arrivabeni è al contrario più ferrato nel prestare devoto sostegno al canto, e più seguendo che determinando. Davanti a lui è del resto spiegata una compagnia da lucciconi agli occhi. Gregory Kunde si impone come maestro di fraseggio dotto e astuzia tecnica: ecco un Don Carlos sia forbito nell’accento sia struggente nel porgere, istruito all’esperienza stilistica di chi è già stato – e come – Arnold nel Guillaume Tell e Jean de Leyden nel Prophète. Armonici sfarzosi e incisività di parola rendono prezioso, in Ildebrando D’Arcangelo, un Philippe II più offeso e combattivo che senile e dolente. Yolanda Auyanet supera ogni più rosea aspettativa come Élisabeth de Valois: domina con uniformità timbrica e sicurezza estensiva l’ampio scarto tra registri; segue l’evolvere psicologico del personaggio ma ne precisa subito l’innata maturità. Azzeccato è l’assortimento con l’inedita Princesse Eboli di Kate Aldrich, referenziata dai trascorsi belcantistici benché di mezzi non più freschi. Al di sopra di ogni confronto si colloca, come Grande Inquisitore, un Roberto Scandiuzzi capace di essere in un sol tempo monumentale nei mezzi e insinuante nelle volontà, caustico nella parola e organistico nella portata. Lionel Lhote reca a Rodrigue i modi da grand seigneur perfezionati fraseggiando molto Berlioz e molto Massenet, con in più l’incanto di una mobilissima prosodia francese da madrelingua: la stessa che fa sussultare per idiomatismo quando canta il Frate di Patrick Bolleire, o il Comte de Lerme e l’Araldo reale di un elegantissimo Maxime Melnik.