La Fenice risorge con Vivaldi
di Francesco Lora
Ottone in villa a Venezia è la prima opera allestita in forma scenica, dopo la chiusura, nella sede ufficiale di una fondazione lirica italiana. Semplice ma efficace lo spettacolo con regìa di Di Cicco, chiara e incisiva la direzione di Diego Fasolis, eccellente la compagnia di canto: Semenzato, Prina, Cirillo, Buzza e Antenucci.
VENEZIA, 15 luglio 2020 – Creata a Vicenza nel 1713, Ottone in villa è la prima opera posta in musica da Antonio Vivaldi; con quattro recite dal 10 al 15 luglio, al Teatro La Fenice di Venezia, essa è anche divenuta la prima allestita in forma scenica, dopo la dolorosa chiusura per la corrente emergenza sanitaria, nella sede ufficiale di una fondazione lirica italiana. Le restrizioni logistiche ci sono, eppure aprono ampi orizzonti. Si allude ai duecento spettatori massimi in una sala da sei volte tanti, e all’osservanza del distanziamento anche per i membri dell’orchestra. Ma il teatro è stato brillantemente rivoluzionato con un’installazione a forma di nave in costruzione, la quale salda in un tutt’uno la platea con il palcoscenico e colloca i musicisti sotto la curva dei palchi: lì la qualità dell’acustica si rivela insuperabile. La scelta del repertorio operistico di primo Settecento, poi, è quella giusta: si tratta di lavori con una manciata di personaggi, nessuna massa corale, orchestra di organico lieve e “numeri” musicali concisi, dove il problema delle voltate di pagine nemmeno si pone (all’epoca gli strumentisti leggevano ciascuno una singola parte, mentre oggi un fascicolo identico è letto e sfogliato a coppie). Lo spettacolo ha regìa di Giovanni Di Cicco, scene di Massimo Checchetto, costumi di Carlos Tieppo e luci di Fabio Barettin. E il divieto di contatto fisico in scena procura addirittura sollievo: finalmente non si vedono più zuffe, stupri e amplessi cari ai drammaturghi odierni; distanziati di un metro, i cantanti presentano invece una gestualità di fine espressione. A risorse contingentate, ecco un fare teatro più accurato di quanto non càpiti osservare in tempo di vacche grasse.
L’arma segreta è una compagnia di canto formata da artisti tutti italiani e perciò forti di una prosodia idiomaticamente perfetta: non fanno perdere una sola parola e sanno tornire i versi con ironia, passione, enfasi, mollezza, impeto, senza la ridicola affettazione di molti stranieri. Giulia Semenzato, come Cleonilla, ha la linea radiosa, virtuosa e immacolata della vera primadonna, cui congiunge con eleganza e malizia la psicologia aristocratica e astuta del personaggio. Sonia Prina, come Ottone, non è più nella rigogliosa ortodossia canora degli anni d’oro, ma rimane presenza scoppiettante e insostituibile per ogni nuovo ruolo vivaldiano en travesti. Lucia Cirillo, come Caio Silio, incontra una delle parti a lei più acconce, e la restituisce con commovente partecipazione e varietà d’accento, oltre che con eloquio musicale forbitissimo. Valentino Buzza, come Decio, è il timbrato e scolpito tenore da opera seria settecentesca che sempre si vorrebbe godere, in questo repertorio, al posto di smunti tenorini anglotedeschi. Michela Antenucci, come Tullia, oppone infine idealmente a quello dello primadonna un carattere più sofferto, espressivo e immedesimato, senza cedere terreno circa la pulizia del canto. Istruita sui fraseggi, l’orchestra della Fenice suona come se tenesse strumenti originali. La direzione di Diego Fasolis, chiara e incisiva, è infatti tra le sue migliori. Peccato allora per i tagli – alcuni anche d’autore ma poi ritrattati: vedi quello della svelta aria «Povera fedeltà» – in un’opera già in sé breve. E inammissibile l’arbitrio di sostituire il parlato al cantato nella lettura scenica delle lettere: nell’Ottocento di Rossini e Verdi era prassi, ma in Vivaldi è gratuita offesa a testo e storia.