Rentrée agrodolce
di Lorenzo Cannistrà
Dopo una prolungata assenza torna l’opera lirica al Teatro alla Scala, che anche con i limiti dello streaming ci regala la gioia di riascoltare il Mozart di Così fan tutte. La recita presenta luci ed ombre: regia ipertradizionale, valorosi interpreti e concertazione perfettibile
Una volta digerito il boccone amaro di una Prima di Sant’Ambrogio senza la Lucia di Lammermoor (pur sostituita da una pregevolissima selezione di arie), ci si è chiesti se il Teatro alla Scala dovesse rimanere comunque orfano dell’opera lirica per tutto il periodo dell’imperante emergenza sanitaria. Ma il Piermarini è un orgoglio italiano, un grande teatro che non può rimanere al palo - soprattutto se altrove ci si organizza, e bene, per garantire la continuità dell’arte operistica. Siamo quindi più che lieti di salutare questo allestimento scaligero di Così fan tutte, la terza e forse più complessa opera della trilogia Mozart/Da Ponte. Si è trattato di uno spettacolo di buona fattura, ma che ha riservato anche qualche perplessità.
La ben nota regia di Michael Hampe (affidata a Lorenza Cantini) e le scene di Mauro Pagano offorno un insieme di un’eleganza classica impareggiabile, benchè opulenta (come i bellissimi costumi): dovunque trionfano colorate maioliche, terrazze affacciate sul golfo, interni arredati nello stile napoletano del Settecento. Il tutto scorre su binari di rassicurante prevedibilità, i gesti sono misurati e quasi raggelati in una mimica attoriale quasi stilizzata. Ma, come è intuibile, tutto ciò non partecipa minimamente della complessa drammaturgia del capolavoro mozartiano, né si può affermare che si tratti di una consapevole “nudità” tesa a far risaltare, isolandola, l’umanità debordante di questa commedia dagli stupendi accenti drammatici. Per intenderci, il mare partenopeo, con la sua serenità e le sue dolci increspature, e la luna che vi si riflette, potrebbero fungere da simbolico controcanto all’inquietudine dei personaggi. In realtà si tratta solo di una autentica cornice, nel senso più passivo del termine, indifferente al limite dello stucchevole, e solo la musica di Mozart ci fa dimenticare quel filo di noia che essa potrebbe infliggerci se allestita perun’opera diversa.
La direzione di Giovanni Antonini (che ha sostituito il designato Antonio Pappano) è complessivamente equilibrata, ma putroppo priva di brio e di leggerezza, nonostante la bravura dei professori dell’Orchestra del Teatro alla Scala. Troppo spesso si è avuta l’impressione che all’unità della rappresentazione si sostituisse un mero inanellarsi di scene, capace di sbiadire la simmetria drammaturgica dell’opera.
Più che soddisfacente invece il cast dei cantanti.
Vocalmente svetta Eleonora Buratto. Il timbro è morbido benchè l’emissione non sia affatto sottile; il soprano ha sfoggiato estrema varietà di accenti e un’espressività vocale sempre allineata allo sforzo recitativo. In “Come scoglio” si può apprezzare l’agilità virtuosistica tanto nei passaggi di bravura quanto nei salti improvvisi da un registro all’altro. Buona la recitazione: la sua è una Fiordiligi più forte della frivola sorella, più ferma nella sua moralità, e il suo cedimento passa solo attraverso la forte passione che vien fuori nell’appassionato duetto del secondo atto con Ferrando.
Emily d’Angelo (Dorabella) si caratterizza per un voce dal timbro non indimenticabile, anche se canta con tecnica impeccabile, mentre la recitazione è azzeccata per la parte della sorella più cedevole. Accanto alla Buratto mostra dei limiti naturali inevitabili, come nel lungo acuto in “Soave sia il vento”, dove la durezza degli armonici si sovrappone poco felicemente alla cavata del soprano mantovano.
Alessio Arduini nella parte di Guglielmo è vocalmente valido e sbruffone al punto giusto. Nel quartetto dei protagonisti anch’egli si inserisce con giustezza, a testimoniare la cura con cui è stato scelto il cast anche dal punto di vista dell’assortimento delle coppie (aspetto non trascurabile in un’opera in cui assistiamo ad una sorta di changez la femme! ante litteram).
Analogo discorso per Bogdan Volkov, anch’egli appropriato nei panni di Ferrando, il più romantico e coinvolto dei “giocatori” nella scommessa amorosa. Dal punto di vista vocale esibisce bellissimi timbro e dizione, specialmente nella famosa “Un’aura amorosa”, cantata con ampio respiro, nonostante si avvertisse talora una certa comprensibile circospezione.
Pietro Spagnoli è un Don Alfonso dalla resa nel complesso soddisfacente, anche se non avrebbe forse stonato un pizzico di perfidia in più.
Infine Despina: Federica Guida ha una voce sottile e agile, brio in scena, ma resta un perfetto pendant di Don Alfonso quanto a tenue caratterizzazione del personaggio, mentre sotto il profilo stilistico risulta perfettibile (l'unica nel cast a non eseguire le appoggiature nei recitativi), al contrario dell'impeccabile collega.
La ripresa televisiva presta il fianco a qualche critica: qualche sfarfallìo di troppo e zoom improvvisi privi di senso ne hanno un po’ indebolito l’efficacia. Quanto al suono, si deve registrare la frequente sensazione che la voce dello stesso cantante provenisse da diverse fonti, mentre sgradevole è stata la frequente intercettazione della voce del maestro suggeritore. Bellissimo tuttavia, sempre con riguardo al sound, il riverbero del coro sistemato sui palchi. Del resto chi mai avrebbe potuto immaginarlo? Solo la pandemia ci sta facendo scoprire nuove disposizioni di orchestra e coro…
Già, la pandemia. Ce ne stavamo quasi dimenticando, presi dall’evocazione dei miracolosi voli mozartiani. Ma ce lo ha ricordato il “siparietto” del continuista che ha accompagnato a fine recita l’inchino dei cantanti: una trovata per non lasciarli soli nell’assurdo imbarazzo del silenzio di un teatro vuoto.