Intimità e ridondanza
di Roberta Pedrotti
Fa discutere l'Aida proposta in streaming da Parigi, tutt'altro che perfetta e proprio per questo ispiratrice di riflessioni sul cosa, sul come e sul perché dell'interpretazione di un'opera.
Streaming da Parigi, 18 febbraio 2021 - In tempi normali, streaming e trasmissioni televisive ci permettono di estendere lo sguardo dove fisicamente non possiamo arrivare - se non altro perché ubiquità e teletrasporto non sono ancora disponibili - per poi, magari, progettare un viaggio per vedere e sentire vedi persona. In questi tempi, se la prospettiva della presenza è difficile da programmare, almeno possiamo constatare cosa succede nel resto del mondo. Forse appurare che anche Parigi o Berlino lavorano a porte sbarrate solo in favore di telecamere, se non ci consola del tutto, ci fa sentire meno soli nell'affrontare l'emergenza.
D'altro canto, il rovescio della medaglia è essere soli davanti a uno schermo con una fruizione parziale, un'interpretazione ulteriormente reinterpretata e filtrata da regia video, fotografia, qualità tecnica di trasmissione. Soli, ma iperconnessi, peraltro, a una rete di commenti in diretta che in sala tacciono e si circoscrivono agli intervalli, lasciando alla riflessione uno spazio che ora si ghermisce, se si ha voglia, con replay successivi.
Un bel saggio di questa bizzarria dello spettacolo quasi dal vivo al tempo del Covid viene dall'Aida trasmessa dall'Opéra di Parigi anche se, o forse proprio perché, produzione d'alto livello ma tutt'altro che perfetta.
In primo luogo, abbiamo un segno tangibile di quella che è un dato di fatto sovente trascurato: la tradizione, l'aderenza storica, quello che si suole chiamare scrupolo filologico non è immutabile, ma sempre subordinato a un documento venire. La medesima volontà di disegnare con rigore, per esempio, un costume da antico romano darà esiti anche diversissimi se espressa nel 2021, nel 1950, cento, duecento, trecento anni prima. Oggi la sicurezza (e un minimo di buon senso e rispetto per la situazione) impone la mascherina almeno per il coro: talora può diventare un oggetto teatrale, talaltra, con non meno naturalezza, essere solo un accessorio talmente comune e scontato da diventare, nell'economia drammaturgica, sostanzialmente invisibile.
La mascherina è un accessorio, un elemento che segna una situazione passeggera (sui tempi in cui si risolverà, tutto dipende dalla nostra responsabilità nella prevenzione e dall’efficienza dei piani vaccinali), ma altre caratteristiche si sviluppano e cambiano nel tempo in maniera magari meno drammatica ed eclatante. Si parla per esempio molto dell’intimità di Aida, invocata o negata via via soprattutto dai direttori. Certo, possiamo discutere sull’equilibrio fra il grandioso e l’intimo nell’opera verdiana, ma forse non è questo il punto, o almeno non è solo questo. Oggi, fra distanziamenti precauzioni, di allestimenti faraonici in senso canonico è impossibile ragionare, la contingenza pone paletti su cui è superfluo discutere. Vale invece la pena soffermarci su come percepiamo i temi fondamentali che Aida mette in gioco: i contrasti di sentimenti, i desideri irrealizzabili, le conseguenze delle proprie azioni, l’oppressione dettata dagli scontri politici, dalle distanze sociali, dal potere religioso. Inutile dire che generazioni che uscivano con entusiasmo da dittature e due guerre mondiali vivevano l’idea di passioni ed eroismo diversamente da come li viviamo noi oggi, sensibili magari a diverse prospettive. Così, intimismo di Aida oggi può significare non negarne i momenti grandiosi o i grandi meccanismi politici, ma prestare particolare attenzione ai dettagli, a come questi meccanismi si ripercuotano sulla psicologia dei personaggi, su come possano esprimere fragilità e inquietudini. Questo traspare senz’altro dalla concertazione di Michele Mariotti, che pare tutta volta a scavare nella frase verdiana, nelle sue dinamiche e nei suoi accenti, il che, naturalmente, ne trasmette anche la forza e l’energia [rimandiamo poi alle parole di Luigi Raso, che ha potuto ascoltarlo dal vivo: Napoli, Aida, 28/07/2020]. Questo traspare in modo ben più problematico con Jonas Kaufmann, che si allontana mille miglia dagli eroici Radames del passato e non perché quelli fossero sbagliati, ma semplicemente perché quella baldanza sicura e franca era propria di un tempo che non è questo. Nelle stesse note possono vivere mille vite, mille interpretazioni. Anche quella non proprio impeccabile sul piano dell’emissione e della qualità del suono, perché senz’altro non si può dire che qui Kaufmann si presenti vocalmente al suo meglio, almeno per quel che si ascolta dal computer. Tuttavia, questo Radames immaturo, sognatore, un misto d’insicurezza e spavalderia, tragicamente catapultato in un orrore troppo grande per le sue “forti braccia” è, oggi, terribilmente giusto. Non è tempo di supereroi indistruttibili uomini d’acciaio, anche al cinema e nei fumetti dietro maschera e mantello vediamo ormai crisi e ferite. Chi canta benissimo è, tanto per cambiare, Ludovic Tézier, a ricordarci che non è la qualità della voce e della tecnica a essere relativa, ma è la qualità dell’interprete a fare la differenza: Kaufmann è un grande artista che dà senso a suoni eterodossi; Tézier è un grande artista che non si appaga della bellezza del canto e lo piega in un fraseggio sottile e dignitoso, plasmando un Amonasro fiero e autorevole, non stereotipo di feroce guerriero e padre tirannico. Alla fine anche gli opposti vocali si incontrano perfettamente nell’unità d’intenti e sensibilità interpretative. Non altrettanto si può dire di Aida e Amneris: Sondra Radvanovsky infila tutte le note con sicurezza, belle sfumature, colori anche suggestivi, ma senza articolare il testo come Verdi imporrebbe. Ksenia Dudnikova passa piuttosto inosservata accontentandosi di una volonterosa diligenza a cui manca qualsivoglia guizzo che s’imprima nella memoria, fors’anche per la poca dimestichezza con la lingua. Radvanovsky, infatti, dà l’impressione più che altro di non badare a scandire le parole con chiarezza, mentre Dudnikova pronuncia tutto in maniera abbastanza corretta, ma senza far trasparire un’autentica e piena comprensione del significato. Dmitry Belosselskiy è un Ramfis ieratico e robusto, Soloman Howard, Alessandro Liberatore e Roberta Mantegna completano il cast con qualche lusso, garantito anche da José Luis Basso maestro del coro.
Inevitabilmente, anche a prescindere dalle intenzioni tradizionaliste o rivoluzionarie, anche il modo i concepire tradizione e rivoluzione cambiano nel tempo. Possiamo riflettere sul contesto in cui Aida venne concepita, sulla mentalità in cui si mossero committenti, artefici, primi interpreti, pubblico e critica, ma non potremo mai farlo eliminando del tutto il filtro della nostra mentalità e sensibilità, del nostro metodo di approccio e sistema di valori. Se le stesse note e parole possono prendere vite diverse, diversi sono poi anche gli occhi e gli orecchi che le recepiscono.
Anche per questo, di fronte a uno spettacolo come quello di Lotte de Beer, che si propone proprio non solo di interpretare il testo ma anche il suo contesto originario, il primo nodo che viene al pettine non è concettuale ma tecnico, ché ogni concetto rischia d’infrangersi se non è esposto e sviluppato a dovere. Anche nel canto un'emissione eterodossa deve essere comunque funzionale all'idea, mettersi al servizio dell'interpretazione: qui ancor più non è una resa anticonvenzionale o interlocutoria il punto, ma è la sua capacità di sviluppare e sostenere l'idea e l'interpretazione. Alla questione del cosa, si antepone il come, perché purtroppo de Beer cade in una delle più insidiose trappole per un regista: appagarsi dell’intuizione originaria e scadere nella ridondanza. Ciò avviene con la scelta di far interpretare Aida e Amonasro a due burattini doppiati dai cantanti che li accompagnano: cosa che alla lunga stucca, finisce per sembrare fine a se stessa, si svuota di senso. Soprattutto nell’ultima scena, quando vediamo Radames aggirarsi sconvolto e affranto in uno spazio oscuro ingombro di corpi pietrificati, membra disarticolate e abbandonate, tutto nero cenere, con Sondra Radvanovsky a intonare le sue frasi come spirito, anima purificata a cui “si schiude il ciel” (è anche il momento migliore sia per lei sia per Kaufmann), l’ingresso dei burattinai che ricompongono e rianimano il fantoccio di Aida è davvero un brutto calo di tensione, un’inutile iterazione di quanto già avevamo visto. Ecco che un errore tecnico dissolve quella che poteva essere un’intuizione utile a mostrare l’alterità di Aida e Amonasro rispetto agli egiziani (e ricordiamo che se in Otello il pregiudizio etnico è fondamentale per isolare il protagonista e innescare la tragedia, in Aida la questione è politica - la guerra in corso fra i due popoli - e sociale - principessa etiope schiava della figlia del faraone). Potevano rappresentare, con i loro corpi meccanici simili ai calchi di Pompei accompagnati da voci umane, la scissione fra apparenza (schiava e prigioniero) ed essenza (principessa e re condottiero), fra costrizione e desiderio: resta solo un espediente che, come tale, perde subito interesse o lo devia in rivoli inconsistenti. Parimenti, senza l’apporto di una coreografia di spessore, la passerella di trionfi di cartapesta in diorami ispirati a dipinti e fotografie storiche risulta inutilmente ripetitiva e un’idea potenzialmente interessante torna a stuccare e trasformare l’ironia in parodia. Nel ripetere, peraltro, si perde di vista la coerenza drammaturgica, per cui la società coloniale ottocentesca che guarda all’antico e all’esotico non si capisce bene cosa abbia a che fare con gli intrighi di Amonasro e la condanna di Radames, come se mancasse un tassello fra la tronfia borghesia ghiotta di curiosità etnografiche del primo atto e la presa di coscienza del giovane condottiero in un sepolcro desolato. Manca la quadratura del cerchio fra il gusto pompier delle potenze europee, il desiderio del Kedivé melomane di celebrare la storia patria con l’opera di un grande compositore occidentale (a proposito, checché se ne scriva anche sul sito di ARTE, Aida non celebra affatto l'apertura del canale di Suez), l’interesse di Verdi più che alla cornice alle dinamiche delle relazioni e delle pressioni del potere. Si può anche decidere di privilegiare un aspetto rispetto agli altri, ma le idee devono essere chiare.
Ecco, invece, che il come sfalda il cosa, ma ci spiace, perché un’elaborazione critica, anche ironica, dell’iconografia dell’epoca e del suo esotismo coloniale, così come la scissione fra corpo e anima degli oppressi cui l’identità è negata o la visione antieroica di Radames (cosa assodata nel XXI secolo: lo fece anche Zeffirelli a Busseto) avrebbero potuto essere ben altrimenti sviluppate e sortire ben altri esiti. D’altra parte, non sono solo le buone intuizioni (men che meno le dichiarazioni e le intenzioni) a fare il grande interprete: sono la coerenza nello sviluppo e la tecnica nella realizzazione a fare la differenza. Per questo, val la pena di ragionare più che sul giudizio finale, sul perché un’interpretazione funzioni o meno, convinca o meno; non solo sul cosa ma anche e talora soprattutto sul come, che ne è necessaria premessa. Differenze a volte sottili, che nell’eccellenza si annullano, giacché gli strumenti coincidono con il risultato. Non farà male, allora, fermarsi a pensare un po’ anche ai meccanismi che tendono a incepparsi, anche per capire meglio quelli perfetti.