Salome e il complesso di Elektra
di Roberta Pedrotti
Per vie tortuose, maturate e sviluppate in tempi terribili, riprende forma il progetto originario della Salome prevista un anno fa alla Scala. Anche se nelle limitazioni dovute alla pandemia, si impone la straordinaria lettura di Riccardo Chailly in simbiosi con l'interpretazione dalla ferrea logica psicanalitica di Damiano Michieletto e con un cast eccellente.
Streaming da Milano, 20 febbraio 2021 - Alla fine, sembra che si cominci a tornare sul cammino prestabilito, pian piano, per vie tortuose e non sempre facili. Un anno fa, il 22 febbraio, alla Scala debuttava Il turco in Italia destinato a svanire dopo una sola recita, il giorno dopo la replica del Trovatore veniva annullata poco prima di andare in scena. Nel frattempo si stava già provando la produzione successiva, Salome, con Riccardo Chailly e Damiano Michieletto.
Nel ricomporre il lavoro sospeso e rimettersi in carreggiata, Salome torna in cartellone, almeno per una sera, almeno in streaming, ma nel nuovo incastro delle date pare che Chailly non possa essere confermato. La soluzione è lussuosissima: Zubin Mehta. Solo che il grande veterano accusa un malore durante le prove, non si può rischiare ed ecco in extremis il direttore musicale tornare a riprendere il lavoro interrotto un anno prima. Il tempo, anche il peggiore, non passa invano, il discorso si arricchisce e immaginiamo il frutto della preparazione originaria decantato nei mesi, corroborato poi da un intervento esterno di altissimo profilo e quindi compiuto in sintesi ancora dal primo artefice. Un processo hegeliano si condensa alla fine in ciò che ascoltiamo e che consigliamo di (ri)ascoltare dal portale Raiplay, che offre una qualità audio assai superiore alla mediocre trasmissione di Rai5 (chi lo capirà mai che i canali dedicati alla musica d’arte dovrebbero avere uno standard superiore?). Il tessuto cangiante dell’orchestra riesce a mantenere una compattezza e una sottigliezza sbalorditive rivelando colori, riflessi, consistenze, spessori sempre in simbiosi perfetta con il testo e l’azione. Non c’è mai nemmeno il sospetto del mero virtuosismo strumentale in una partitura che all’orchestra offre le più allettanti occasioni per sfoggiare ogni potenzialità. Anzi, in superficie, talora, sembra perfino ritroso, Chailly, trattenuto di fronte a effetti e ampiezze che, in realtà, aguzzando l’orecchio si rivelano ancor più pervasivi. La scena dei cinque Giudei, per esempio, non ha nulla di grottesco, anzi, si salda in un crescendo nevrotico controllatissimo - e dunque ancor più angoscioso - con l’immagine dell’ala oscura che tormenta Herodes, mentre Damiano Michieletto fa piovere piume e penne nere. L’evocazione di tesori scintillanti da parte del Tetrarca non è puro preziosismo estetizzante, ma già balugina di ironie stranianti, colori lividi e, a modo loro, brillanti in armonie sempre più audaci, come in linee sinuose e serpentine che svelano la loro natura di maschere perturbanti. Basti pensare a quel che si agita dopo il confronto fra Salome e Jochanaan, compresso, quasi soffocato, ma esplosivo proprio per il nitore spietato che freme fra gli estremi dei registri dei legni. L’eros c’è, eccome, ma non è quello ammaliante fra profumi e tessuti esotici, è quello sepolto negli abissi dell’ES, è quello che sarà perturbante di Lulu, distillato fino a prosciugare le membra per meglio concentrare le essenze, senza temere suoni quasi sordi, soffocati eppur capaci di metamorfosi in lucide trasparenze.
D’altra parte, Chailly va di pari passo con Michieletto nel pensare a una Salome sorella gemella di Elektra, e non tanto su un piano di avvicinamento alla furiosa incarnazione straussiana (sebbene l'espressionismo sia dietro l'angolo, è evidente), quanto per un’associazione al mito e alle sue implicazioni psicanalitiche. Salome soffre per la perdita del padre, la cui memoria riemerge nelle parole del profeta risvegliando un rancore mai sopito verso la Herodias, che ha tradito, sostituito e forse perfino ucciso il primo marito. L’immagine del patrigno la tormenta, si proietta in giovani uomini vestiti allo stesso modo, tutti con la medesima maschera, che ricorda quella funebre detta di Agamennone. Questo patrigno, però, è anche il fratello del padre, il confine fra l’abuso e la pulsione rimossa è molto sottile, volutamente ambiguo. Tuttavia, l’ambiguità non si perde nel vago e nell’incerto perché tutto lo spettacolo si regge su una logica ferrea e un legame strettissimo con il testo. Non solo e non sempre in senso letterale, beninteso, ma istituendo paralleli chiari ed evidenti con connotazioni proprie del testo. Per esempio, quando Jochanaan annuncia Cristo ( “rufe ihn beim Namen. Wenn er zu dir kommt”, “chiamalo con il Suo Nome quando Egli verrà”) il nome è quello del vero padre defunto (ucciso?) e rimosso, Herodes Philippus. La simbologia cristologica unisce figlia e genitore fino all’evidenza della citazione finale dell’Apparizione di Gustave Moreau. Forse il più celebre dipinto simbolista e la più celebre raffigurazione di Salome fornisce non solo un punto d’incontro con l’estetica di Wilde e Strauss, ma è anche il fulcro di tutti i legami simbolici tessuti fino a quel momento: epifania mistica e non realistica del capo del Battista che si sovrappone a una rivelazione del Messia, un rivolo di sangue che non smette di sgorgare, eterno come il mistero della morte e dell’amore, eros e thanatos, mestruo, verginità ed eucarestia. Tutto talmente puro e lineare da non sembrare nemmeno audace, tant’è vero che questa Salome, più che turbare e scuotere, tende a risolvere i conflitti, lasciando fuori dalla porta, mentre la giovane ascende trasfigurata dal suo percorso interiore, anche la rabbiosa condanna di Herodes.
Fuori dalla porta, perché lo spazio, la forma è sostanza. Se la costruzione di Michieletto funziona è perché è parte di un ambiente fisico, non è semplicemente illustrata. Carla Teti racconta con l’abitino lilla di Salome, gli smoking e i gessati eleganti degli uomini, copie continue di un’indefinita e minacciosa idea di maschio, gli angeli con le ali nere che si materializzano dalla psiche della principessa e dagli incubi del Tetrarca come messaggeri (ἄγγελοι, angheloi, appunto, in greco) del mistero e del non detto. Paolo Fantin racconta con l’incastro di due ambienti astratti, bianco e nero lucido, asettico: yin e yang, giorno e notte, maschio e femmina, luna e oscurità, superficie e abisso, con la cisterna che si apre al centro, colma di terra, sorgente di vita e custode dei segreti, riposo dei defunti, ritorno alla natura. Alessandro Carletti evita la luce naturalistica e sfrutta le superfici nette di Fantin per delineare uno spazio soprattutto mentale. Impossibile non citare anche il coreografo Thomas Wilhelm, che salda all'azione una Danza dei sette veli che è un inquietante viaggio onirico nell'abuso rimosso e nella scoperta traumatica della sessualità.
Il cast risponde alla perfezione all’impostazione di Chailly e Michieletto, a partire da Elena Stikhina, con la sua aria da inconsapevole Lolita, quasi goffa nel suo ammiccare a Narraboth, ritrosa, introversa, ma involontariamente provocante nel contrasto fra l’aspetto ancora infantile e le labbra carnose caricate dal rossetto. La voce è luminosa, sicura, ben salda anche nelle impressionanti discese contraltili con cui impone a Herodes la consegna della testa del Battista, e pur sempre innocente, capace di astrazioni stranianti e perturbanti, come quando, allucinata, domanda per la prima volta “Den Kopf des Jochanaan”, come se la richiesta non fosse deliberata, ma ispirata al momento dal profondo, forse per cancellare le voci della verità e del passato, forse per domarle, conoscerle e superarle. Wolfgang Koch conferisce la giusta, sovrumana ed evocativa dimensione a questa voce superiore e interiore, profeta il cui candore sembra venire da un altro mondo, dall’aldilà o dal profondo dell’anima, latore di simboli che si credevano sepolti. Herodes ed Herodias sono, tutto sommato, una coppia affiatata, complice anche nei contrasti e nei battibecchi, una coppia dell’alta società che dissimula come può i propri fantasmi con voce ben a fuoco e senza scadere nella macchietta: Gerhard Siegel più che un laido Nerone alla Peter Ustinov è un perverso per bene corroso da incubi e allucinazioni; Linda Watson è una ricca signora che sembra non fare mai una piega, finché non si affaccia il ricordo (e il rimorso?) della morte misteriosa del primo marito. La nevrosi non risparmia nemmeno il Narraboth di Attilio Glaser, che difatti si uccide ingoiando le pillole a portata di mano: sembra uno studente o un impiegato impacciato e quando Herodes lo ricorda come un bel ragazzo lo fa con aria stranita, come fosse la frase di circostanza del capo che non sa assolutamente di chi stia parlando. Il paggio qui è una governante ed è, a ben guardare, l’unica vera licenza rispetto alla lettera, ma è licenza da poco conto, ché le sue frasi funzionano tutte benissimo ugualmente: anzi, l’anziana signora che conosce tutti i segreti della casa e mormora di continuo che qualcosa di terribile dovrà accadere ha un peso non indifferente e Lioba Braun ne fa un magnifico cameo. Nella fitta schiera dei comprimari si segnali almeno il primo Nazareno di Thomas Tanz, senza dimenticare i giudei Matthäus Schmidlechner, Matthias Stier, Patrick Vogel, Thomas Ebenstein ed Andrew Harris, il secondo Nazareno Manuel Walser, i soldati Sorin Coliban e Sejong Chang, l’uomo di Cappadocia Paul Grant e lo schiavo Chuan Wang, questi ultimi entrambi allievi dell’accademia della scala.
Ora, mentre il collegamento Rai si chiude con il saluto degli artisti e fra gli artisti in proscenio, non possiamo che auspicare una ripresa a teatri riaperti, per riprendere definitivamente i discorsi interrotti. I teatri sono pronti, ma lo è anche questa società insofferente alle responsabilità? Lo è anche chi, anche a pochi passi dalla Scala, non riesce ancora a impostare una campagna vaccinale degna di questo nome?
foto Brescia Amisano