La strana coppia
di Irina Sorokina
Ancora una volta allontanato dai suoi gemelli pucciniani del Trittico, Il tabarro incontra una rarità buffa di Ponchielli, Il parlatore eterno. Biagio Pizzuti è un vero mattatore nei panni del logorroico protagonista, mentre il dramma di Puccini si avvale delle ottime voci di Elia Fabbian, Maria José Siri e Samuele Simoncini. Sul podio Daniel Oren, regie di Stefano Trespidi e del duo Maranghi/Gavazzeni.
Verona, 28 febbraio 2021 - Esistono tante strane coppie al mondo. Non parliamo degli esseri umani: meglio evitare un discorso che potrebbe essere infinito e spesso pericoloso; segnaliamo la strana coppia che è apparsa al Teatro Filarmonico di Verona nel corso della stagione lirica 2021 in attesa del rinomato festival. Senza dubbio, la scelta della direzione artistica ha puntato al risparmio: Il Tabarro, parte del Trittico pucciniano, è stato “accoppiato” con un’operina (eh, proprio così, dura una ventina di minuti) di Amilcare Ponchielli, Il Parlatore eterno. Ma chi è questo parlatore e da dove salta fuori? Era una buona domanda finché non abbiamo preso in mano un ottimo programma di sala edito dalla Fondazione Arena con i lavori accurati di Angela Bosetto e Angelo Rusconi.
Per tutti Amilcare Ponchielli è l’autore della Gioconda, un analogo italiano del grand-opèra francese, su libretto di Boito (nascosto sotto lo pseudonimo Tobia Gorrio), celebre per melodie accattivanti divenuta popolarissime, ma soprattutto per La danza delle ore. Il catalogo del maestro cremonese, però, è molto nutrito e, tra tanti titoli oramai caduti in dimenticanza, troviamo questa graziosa composizione, Il parlatore eterno, appunto. Un’operina su libretto di Antonio Ghislanzoni (di cui subito si ricorda la collaborazione con Verdi per Aida) che potrebbe benissimo definirsi anche operetta ed è, in realtà, un pezzo di bravura per baritono, anche se non mancano parecchi personaggi di contorno e c’è pure il coro. La storia delle rappresentazioni sceniche di questo scherzo grazioso è piuttosto breve e le due messe in scena risultano legate alla città di Lecco, il 18 ottobre 1873 e poi nel 2006, se non si vuole considerare quella a Fano, sempre nel 2006, con la partitura rivisitata dal compositore Mario Mariani.
Ci vuole un baritono speciale, anzi, un super baritono per il ruolo del logorroico Lelio Cinguetta, affascinante, spigliato, energico e… resistente poiché costretto ad una presenza continua sul palcoscenico. Non ci siamo meravigliati quando abbiamo visto sulla locandina il nome di Biagio Pizzuti: lo troviamo perfettamente adatto al ruolo di un insopportabile chiacchierone narcisista capace di troncare ogni tentativo di dialogo. Pizzuti si rivela un autentico mattatore e, difatti, parla (pardon, canta) senza interruzioni per tutta la durata del pezzo, tirando fuori voce chiara e limpida, legato incantevole, declamato preciso, accento perfetto, colori variegati. La parola giusta per la sua esibizione? Canta e recita in modo saporito.
Attorno a lui, uno schieramento di artisti che volentieri si prestano al gioco e calano perfettamente nei panni dei personaggi: Grazia Montanari – Susetta, Maurizio Pantò – dottor Nespola, Tamara Zandonà – Aspasia, Sonia Bianchetti – Sandrina, Salvatore Schiano di Cola – Egidio, Francesco Azzolini – un Caporale dei gendarmi.
Lo scenografo Filippo Tonon costruisce un ambiente leggero come una piuma: una parete di mattoni quasi bianchi con qualche porta, la data scritta della prima assoluta a Lecco e dei praticabili costituiti da cubi bianchi. Lascia tutto lo spazio per le movenze continue e le interazioni spasmodiche del mezzo matto Lelio con gli abitanti della casa, mentre in una specie di galleria appaiono persone mascherate: “il burattinaio” è il regista Stefano Trespidi. Costumi colorati, un paio di accessori e il gioco è fatto. È davvero gradevole fare la conoscenza del Parlatore eterno, basta che… non parli troppo!
Non abbiamo ascoltato spesso Daniel Oren dirigere un’opera comica; si mette leggermente in ombra per lasciar cantare o, meglio dire, sfogarsi l’insopportabile “dottore squattrinato” e si trova a suo agio nell'affrontare la graziosa partitura piena di vivaci ritmi di danza. Molto partecipe e vocalmente perfetto il coro preparato da Vito Lombardi.
Il Tabarro, la prima parte del Trittico, apparve al Filarmonico nel 2006. Puccini avrebbe voluto che le tre opere del Trittico fossero eseguite nella stessa serata; tuttavia è da sempre l’impresa quasi impossibile. E per questo abbiamo chiamato il nostro reportage La strana coppia: per l’ennesima volta abbiamo visto abbinare una parte del Trittico con un'opera ad esso davvero estranea.
Il Tabarro è spesso una buona scelta: una vicenda umana molto semplice finisce con un omicidio, il che addirittura rispecchia la cronaca d’oggi. A Verona si è puntato sulla semplicità, a cominciare dalle scene di Leila Fteita che ha disegnato la barca di Michele attraccata a Senna in modo realistico, senza mancare, però, di spirito poetico. Le forme arrotondate della barca potrebbero avere qualcosa di rassicurante come i panni stesi; non si associano tanto con la vita misera quanto ricordano la casa e il calore della famiglia, anche se, si sa, nella famiglia formata tra Michele e Giorgetta le ombre si sono accumulate parecchio. Una nota rassicurante è affidata alla luce morbida dei lampioni e alle coppiette innamorate che girano il lungofiume, mentre i cieli che si oscurano piano piano e il sole diventa sempre più ardente e minaccioso (le luci suggestive sono dell’areniano Paolo Mazzon).
La regia di Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi è accurata e delicata; lavorano sui dettagli e sull’approfondimento dei caratteri dei personaggi, per questo il cast risulta affiatato e mai sopra le righe.
Sul buon cast impegnato al Filarmonico ha primeggiato, senza alcun dubbio, Elia Fabian; crediamo di non esagerare troppo nel chiamare la sua interpretazione non semplicemente magistrale, ma grandiosa. Ha pensato a tutto, ma proprio tutto, il superlativo baritono: alle movenze, ai gesti, al continuo tenere la pipa tra le mani, come se volesse scaricare la tensione sull’innocuo oggetto; ha pensato soprattutto alla parola cantata in cui ogni sillaba ha un colore giusto, non per nulla “Sgualdrina” da lui pronunciata cade simile a un colpo di machete. Il suo canto generoso e ricco di sfumature scuote le anime.
È buona anche la resa di Josè Maria Siri nella parte di Giorgetta. Il soprano uruguayano possiede una grande voce, forte e estesa; le manca un po’ un timbro indimenticabile, ma sa cantare bene, si presta con anima ai ruoli drammatici e parecchio impegnativi. Disegna Giorgetta in modo naturale e credibile, con qualche sfumatura sottile di sensualità e sofferenza non aggressiva. La Siri riesce felicemente a “domare” il suo imponente strumento, senza mai ricorrere al grido, anche se la voce fa fatica a salire e nei momenti della grande tensione tende di perdere il colore.
Samuele Simoncini si cala perfettamente nei panni di Luigi, canta con passione e spavalderia, senza trascurare spasimi e paure del personaggio e sfoggia la voce salda e da un buon squillo. Lui e la Siri formano un’ottima coppia segnata da un’autentica complicità.
Sorriso e compassione destano tutti i personaggi di contorno; nella produzione veronese gli interpreti dei ruoli della Frugola, il Tinca e il Talpa, rispettivamente Rossana Rinaldi, Francesco Pittari e Davide Procaccini, funzionano così bene che quasi non verrebbe di chiamarli “di contorno”. Soprattutto non passa inosservata l’interpretazione della Rinaldi, una Frugola tonda e bonaria, buffa e indifesa nella misura giusta. Il suo "Ho sognato la casetta" non si dimenticherà facilmente. Completano il cast Riccardo Rados – un venditore di canzonette/Secondo amante, Grazi Montanari – Prima amante/Voce di sopranino, Dario Righetti – Voce di tenorino.
Nel Tabarro Daniel Oren conserva tutte le sue caratteristiche “oreniane” e “areniane” di un vero leader, guida l’orchestra della Fondazione dalla mano ferma e viene seguito con prontezza e entusiasmo da tutte le sezioni d’orchestra. La sua è un’interpretazione dalle dinamiche perfette, colori sgargianti, momenti di lirismo penetranti e alcune sospensioni da togliere quasi il fiato.