Ritrovarsi alla stagion dei fiori
di Roberta Pedrotti
Per il ritorno dell'opera nella sala del Bibiena dopo un anno e mezzo di esilio e chiusure, torna in scena l'allestimento capolavoro firmato da Graham Vick per il Comunale nel 2018. Nel cast quasi completamente rinnovato non tutto convince, ma non mancano soddisfazioni e belle sorprese.
Bologna, 29 e 30 giugno 2021 - Il bello dell’età è che porta con sé esperienze e memorie da condividere e tramandare. Quando si parla dell’effimero meraviglioso e irripetibile della musica e del teatro, poi, il fatidico “io c’ero” assume un potere quasi magico. Noi che potevamo dire “io c’ero” a Bologna, nel gennaio 2018, il cuore e gli occhi gonfi per La bohème subito definita del secolo ora possiamo raccontarla, ripercorrerne i brividi, i dettagli, il perché ci ha segnati e perché la aureoliamo di mito [leggi le recensioni dei due cast: Bologna, La bohème, 19/01/2018 e Bologna, La bohème, 23/01/2018]. Intanto, come ogni grande allestimento, entra nel repertorio, si rinnova, vive la sua storia sulle orme delle carriere decennali dei Rossini di Ponnelle o della Bohème zeffirelliana. Quantomeno, non azzardiamo visioni nella sfera di cristallo, ma auspichiamo lunga, lunghissima vita al capolavoro pucciniano secondo Graham Vick (scene e costumi di Richard Hudson, luci di Giuseppe Di Iorio), mentre coccoliamo il nostro ricordo personale di quella prima epifania di tre anni e mezzo fa.
C’è un po’ di paura di rimaner delusi dalla ripresa, ma in realtà sembra di ritornare a casa, di ritrovare la nostra soffitta, di passeggiare fra le vetrine e i locali natalizi, di aggirarsi inquieti in vicoli malfamati, di ritrovare vecchi amici, o immagini di noi stessi, solo con volti e atteggiamenti diversi. Si torna a vivere cosa siano davvero l’amore, l’amicizia, la gioventù, la maturità, la spensieratezza e il dolore. E c’è sempre qualche dettaglio che si ritrova e si riscopre, anche se le restrizioni remano contro la perfetta fluidità dello spettacolo, vuoi per le prove con Vick presente svoltesi a un mese dalla prima effettiva, vuoi per i distanziamenti che asciugano un po’ quella meraviglia di orologeria teatrale che è il secondo quadro. La qualità vera, però, non teme limitazioni e il caffé Momus non perde il suo fascino, sia per la costruzione perfetta di ogni minuzioso dettaglio, sia per la ventata di coinvolgente attualità che ci mostra la folla assembrata come nelle nostre strade negli ultimi mesi, persone coscienziose e rispettose, maldestri nasi in fuga, maleducazione noncurante di visi scoperti (c'è chi continua a farlo anche al chiuso).
Si sente, semmai, la mancanza della simbiosi che nel 2018 si respirava fra regia e concertazione. A Michele Mariotti, che debuttava nel titolo, succede Francesco Ivan Ciampa, che ha metabolizzato già una sua visione più tradizionale non sempre in perfetta sintonia con quel che si vede, come si avverte nel finale, in cui la tentazione a sciogliere le briglie per il consueto disperarsi di Rodolfo sul capezzale dell’amata deve ricondursi a forza nei binari della dissoluzione mentre il poeta fugge seguito dagli amici, lasciando l’esanime Mimì sola nella soffitta deserta. L’orchestra torna in buca (e con il pubblico in sala!) per la prima volta dopo un anno e mezzo, è motivata, determinata e sostiene molto bene, avvezza com’è al canto e al teatro, una lettura di per sé senza sorprese, propensa al pathos, non sempre precisissima e rifinita. Il coro dalle cui fila provengono anche tutte le parti di fianco, seppur a ranghi ridotti, è in gran spolvero per l’ultima produzione con il maestro Alberto Malazzi, chiamato alla Scala come erede di Bruno Casoni. Le voci bianche sono come sempre preparate da Alhambra Superchi.
Nei due cast che si avvicendano, spicca la conferma di Bruno Lazzaretti come impagabile Benoit e Alcindoro, che nulla ha di macchietta ma raddoppia il tipo vero e tragico del borghesuccio compiaciuto gaudente tardivo, vittima ridicolizzata dai propri vizi non meno delle ragazze sbandate che lo usano e ne sono usate. Il tutto con leggerezza sapientemente umoristica. Dal cast originario ritroviamo anche Andrea Vincenzo Bonsignore, tre anni fa lo Schaunard che tutti abbiamo amato e voluto come amico, oggi felicemente approdato a Marcello con baldanza, misura, bel timbro, sciolto canto di conversazione. Anche il secondo pittore, Vincenzo Nizzardo, fa buona figura con voce sonora, dizione chiara, recitazione disinvolta. La sera della prima è Paolo Ingrasciotta a ereditare il maglioncino rosso e i calzoncini (a seconda della stagione) del musicista della soffitta. La sua è una prova in crescendo, ben conscio che, sì, il racconto di sortita, cantato senza problemi, accattiva le simpatie, ma che i momenti di spensieratezza sono parte dell’evoluzione verso l’ultimo quadro, quello in cui nei piccoli gesti e nelle piccole frasi emerge tutta l’umanità del personaggio. Viceversa, nell’alternanza non convince per nulla Pierluigi Dilengite, emissione rigida e sgraziata, azione scenica sbrigativa (ecco che la tenerezza del lenzuolo a coprire il corpo di Mimì diventa un indifferente stendere la tovaglia…). Complementari, invece, i due Rodolfo: Francesco Castoro ha una bella vocalità luminosa impostata con criterio, anche se potrà affinarsi soprattutto come attore; Alessandro Scotto di Luzio si mostra più dinamico e comunicativo, ma seppure un tantino disordinato nel canto. In entrambe le prime recite Colline è il promettente Francesco Leone, voce pulita, perfetto nel definire non un filosofo sussiegoso, ma un ragazzo timido, preciso, dai gusti un po’ vintage, da sempre immerso nei libri, pur con la sua sana voglia di vivere e divertirsi.
Quanto a Mimì e Musetta, abbiamo quattro interpretazioni completamente diverse, sebbene egualmente ben inserite nel meccanismo complessivo. Nei panni della volubile amante di Marcello, Valentina Mastrangelo mostra, com’è giusto che sia, voce più lirica che leggera e soprattutto costruisce un personaggio. Bella ragazza, intelligente, ma sbandata, visibilmente alterata da alcol o droghe già nel primo apparire, non carica la recitazione nemmeno quando deve mostrare la volgarità, basta la camminata o un modo di muoversi. Nina Solodovnikova, soprano leggero quando non leggerissimo, risulta per lo più inudibile, bambolina umana vuota e attraente. Come Mimì alla prima c’è Benedetta Torre, con la sua dolcezza non manierata, una delicatezza naturale ben fondata su una vocalità morbida e duttile, assai promettente. È, però, Karen Gardeazabal che, la sera del 30 giugno, soprattutto colpisce. Già aveva offerto una prova molto interessante, un anno fa, come Donna Anna a Macerata [Macerata, Don Giovanni, 18/07/2020]: ora offre a Mimì non solo un timbro prezioso, una buona estensione e un’ampia gamma dinamica, ma una scintilla d’artista di prima categoria, bella e spontanea varietà di colori ed accenti che speriamo si affini e sempre più in una radiosa carriera. Irradia candida malizia nel gioco di seduzione nel primo quadro, è sincera, fresca, piena di vita, curiosa, ingenua al punto giusto. Ed ecco che le belle sorprese vengono anche nelle riprese, che gli spettacoli mitici fatto da culla a nuove generazioni. Meglio di così non si può sperare: auguriamoci allora mille ancora di queste Bohème, mille debutti e ritorni per gli artisti che vi hanno mostrato e vi mostreranno il loro valore, mille applausi del pubblico che finalmente torna a casa.
Il cast del 29 giugno
Il cast alternativo
foto Ranzi/Casaluci