Non la solita Bohème
di Luca Fialdini
L’opera sulla giovinezza porta due graditi ritorni a Torre del Lago: il celebre allestimento di Ettore Scola del 2014 e la bacchetta di Enrico Calesso.
TORRE DEL LAGO, 21 agosto 2021 – In mezzo ai due nuovi allestimenti per l’edizione di quest’anno, per Tosca e Turandot, torna un allestimento amato dal pubblico fin dalla prima apparizione nel 2014, quello per La bohème firmato da Ettore Scola. La regia è ripresa da Marco Scola di Mambro, nipote del regista, con il massimo ossequio: in buona sostanza, non viene cambiato assolutamente nulla. Per la descrizione dell’allestimento si rimanda alla recita già da noi recensita nel 2014 [leggi].
Assieme a quello dell’allestimento di Scola, questa Bohème accoglie un altro gradito ritorno, quello di Enrico Calesso, che debuttò lo scorso anno a Torre del Lago dirigendo Madama Butterfly. Quella di Calesso è una tra le bacchette più interessanti passate al Festival pucciniano in recenti tempi e questa Bohème ha pienamente confermato le impressioni avute nella passata occasione. Ascoltata letteralmente per due sere consecutive, sotto la direzione di Calesso sembra quasi di avere a che fare con un’orchestra diversa, più compatta, con maggior gusto nei colori e più ricca nelle sfumature.
Si scelgono tempi comodi e abbastanza tradizionali, la partitura è quella usuale, non ci sono importanti cambiamenti eppure il risultato non è la solita Bohème. C’è grande attenzione per il segno scritto, che viene rispettato in toto, e questo porta a far scoprire al pubblico cose che non emergono in esecuzioni di routine. Ecco che i colori sono soffusi quando richiesto ma sempre definiti, il peso dei singoli interventi strumentali è molto più equilibrato, il supporto ai solisti è finalmente solido; ma la grande intelligenza del direttore si percepisce nella gestione degli insiemi: in fin dei conti, questa è più che un’opera di parti soliste è un’opera di ensemble e si punta tutto proprio su questi ultimi. Buona prova da parte del Coro preparato da Roberto Ardigò e soprattutto del Coro di voci bianche preparato da Viviana Apicella.
A concorrere in modo importante alla buona riuscita dell’operazione va la verosimiglianza e la disinvoltura che ogni interprete riesce a imprimere al proprio ruolo, cominciando dal doganiere del giovanissimo Michelangelo Ferri fino Giovanni Cervelli (venditore) e Tommaso Corvaja (sergente dei doganieri). La bohème è uno dei titoli pucciniani dove la somma delle parti - indipendentemente dal peso all’interno della trama - regge l’illusione del melodramma in ogni suo momento; dei bravi comprimari fanno la differenza.
Matteo Castrignano propone un buon Parpignol, mentre Matteo Mollica regala una pregevole e doppia interpretazione di Benoit e Alcindoro.
Nel folto gruppo principale ha positivamente prevalso una recitazione relativamente asciutta, eliminando i facili pietismi che spesso si incontrano in titoli simili. Un ottimo esempio di questo è Tommaso Barea, uno Schaunard ben calibrato tanto nella voce quanto nella recitazione, un interprete che merita attenzione. Nello stesso solco si inserisce il buon Colline di Abramo Rosalen.
Maria Chabounia debutta qua il ruolo di Musetta e non appena entra in scena attira immediatamente l’attenzione del pubblico. Sicuramente la parte le sarà congeniale, ma non capita tutti i giorni di trovarsi di fronte a una cantante con queste capacità recitative. Il piglio deliziosamente altero, la sensualità sempre sottesa ma mai esplicita, la raffinatezza nell’espressione rendono la sua Musetta notevole. Da sottolineare la duttilità del canto, che segue sempre in parallelo la recitazione: sensuale, graffiante, ricercato nel secondo e terzo atto, accorato e sincero nel dolente atto conclusivo.
Il turco Kartal Karagedik è un eccellente Marcello: sin dalle prime battute si può apprezzare il notevole strumento vocale, molto omogeneo e dal timbro affascinante. Notevole la cura nel fraseggio, specialmente nei momenti d’insieme in cui riesce comunque a emergere ma senza prevaricare. Particolarmente gustosi i litigi con Musetta, curiosamente sua moglie nella vita.
Ivan Ayon Rivas è un Rodolfo dal tipico timbro limpido peruviano (come disse qualcuno, ma cosa vi mettono nell’acqua di Lima?), dal colore argenteo e facile all’acuto. Conoscenza e familiarità con il ruolo sono forti e si privilegia un’interpretazione esuberante e spigliata, che però a volte cade nella facile trappola della naïveté e - curiosamente - questo aspetto è molto marcato nei momenti di dialogo con gli altri personaggi. La base è ottima, quel che manca è un approfondimento psicologico del personaggio, il giusto contrappeso all’esuberanza giovanile.
Notevolmente più matura (e molto interessante) l’interpretazione di Polina Pasztircsák. Soprano ungherese dalla tecnica impeccabile come la dizione, impersona una Mimì di alta levatura che nei momenti più drammatici brilla di luce intensa. Significativo l’apporto nelle sequenze dialogate, alle quali aggiunge una componente emotiva importante; il tutto ammantato di un bel timbro che dimostra uniformità anche nei passaggi di registro.
Tirando le somme di quest’ultima recita lirica della stagione, si riconferma la direzione intrapresa lo scorso anno da Giorgio Battistelli: Torre del Lago torna a investire sulla qualità e su proposte meno scontate. Da sottolineare non solo il fatto che l’età media dei cast è assai più bassa delle passate edizioni (e anche di altre realtà liriche nella stessa area), ma anche che si tratta di giovani interpreti di ottimo livello. Certamente tutto è perfettibile, ma la rotta tracciata è quella giusta.