In “Grande” spolvero
di Lorenzo Cannistrà
Zubin Mehta e l’Orchestra del Teatro alla Scala si esibiscono in streaming in un programma comprendente l’ouverture Coriolan op. 42 di Beethoven, le arie “Voi avete un cor fedele“ K 217 e “Chi sa, chi sa, qual sia“ K 582 di Mozart (con il soprano israeliano Chen Reiss) e la Sinfonia in do maggiore D 944 “La Grande” di Schubert
Dopo La traviata, lo Strauss di Vita d’eroe e la Terza di Mahler (e in attesa di Salome con regia di Michieletto), Zubin Mehta torna alla Scala con Beethoven, Mozart e Schubert: un’ouverture, due arie d’opera, una sinfonia. Un accostamento poco usuale in verità; e tuttavia si tratta di un programma di grande bellezza, in cui si può ritrovare anche qualche sorprendente assonanza interna.
A ben vedere infatti l’ouverture Coriolan e le arie d’opera K 217 e K 582 hanno in comune il fatto di essere composizioni svincolate da un preciso contesto (teatrale) all’interno del quale avrebbero dovuto trovare collocazione. Ma mentre in Mozart queste arie, scritte isolatamente, venivano comunque incastonate in lavori operistici altrui, il carattere più marcatamente déraciné del Coriolan è invece legato alla volontà beethoveniana di assolutizzare questa musica, non legarla alle sorti del dramma che introduce, a dispetto del genere a cui appartiene: in questo senso essa è davvero un “preludi(o) ad azioni che non importa più seguire, sipari(o) che è superfluo alzare” (Giorgio Pestelli).
Ma allora perchè avvicinare questi lavori a “La Grande” di Schubert, pietra miliare del sinfonismo di ogni tempo?
Zubin Mehta non offre durante l’intero spettacolo in diretta streaming - compresa l’intervista rilasciata nell’intervallo - spunti per una adeguata chiave di lettura. Di certo, nella triade di grandi compositori viennesi, Schubert è quello che ha di volta in volta attinto all’uno e l’altro maestro recependone nei suoi capolavori il supremo insegnamento (si pensi, in ambito sinfonico, alla differente temperie emotiva tra le sue Quarta e Quinta). Mi sembra però di ravvisare in questi lavori anche la ferma volontà dei tre genîdi perseguire determinati ideali artistici. Beethoven, come si diceva poc’anzi, sempre teso ad affermare il primato della musica assoluta, tanto da immaginare un’ouverture come lavoro artisticamente autonomo; Mozart, smanioso di affermarsi in campo operistico, dovunque si trovasse nel suo girovagare per l’Europa; Schubert, desideroso di misurarsi alla pari con la grandezza del sinfonismo beethoveniano.
Ma veniamo all’esecuzione di questa sera.
Mehta è visibilmente a suo agio insieme ai professori scaligeri, che conosce molto bene e con i quali da tempo ha instaurato un ottimo feeling. Tuttavia non posso affermare con certezza che con il Coriolan abbia funzionato tutto alla perfezione. O meglio, l’orchestra è stata impeccabile (come al solito), ma la resa complessiva ha scontato una certa pesantezza nella scelta dei tempi e nella realizzazione delle dinamiche. Intendiamoci: Mehta non è l’unico a staccare tempi poco vivaci per questa pagina, ma ciò che stupisce è una certa fiacchezza percepibile in alcuni punti dell’opera. Bene l’inizio, asciutto e perentorio, bene l’esposizione dei temi di Coriolano e della madre, ma nel successivo intensificarsi della tensione emotiva si ha l’impressione che l’approccio rimanga eccessivamente “morbido”, specialmente laddove il discorso si fa più incalzante, mentre il nervoso ritmo puntato - che ritroveremo frequentemente nell’ultimo Brahms - non sembra avere l’indispensabile vigore che si addice ad una pagina pensata per rievocare gesta eroiche.
Le arie mozartiane vedono protagonista il soprano Chen Reiss, brava e affascinante. Il timbro è molto particolare e interessante, un misto di corposità, leggerezza e agilità che ne fanno uno strumento ideale per la vocalità mozartiana. Nell’interpretazione del soprano israeliano si apprezzano il virtuosismo chiaro e l’abbondanza di appropriate colorature.
L’approccio “morbido” di Mehta che aveva un po’ disturbato nel Coriolan si adatta invece senza problemi a “La Grande” di Schubert, di cui viene esaltata la componente cameristica anche nella disposizione degli orchestrali (con i legni davanti). Il primo movimento scorre piuttosto placidamente, ma con una piacevole souplesse, quasi facendo dimenticare il complesso andirivieni armonico che lo rende ancora oggi un caso di studio. Nel secondo movimento si può apprezzare la sonorità dei legni, che nella loro inedita posizione si stagliano con nettezza sull’accompagnamento orchestrale. Nella sezione centrale il tema annunciato dai violoncelli e poi ripreso dall’intera orchestra è commovente, pieno di struggente nostalgia e di velata religiosità. Nello Scherzo è evidente in Mehta l’impegno nella cura del fraseggio e dell’equilibrio strutturale che, più ancora della pienezza della sonorità e degli effetti orchestrali, è ingrediente indispensabile nell’interpretazione dell’ultimo Schubert. Nel finale la forma sonata, di cristallina fattura, viene esaltata dalla chiarezza complessiva dell’esecuzione. La continua pulsazione di terzine non ha mai cedimenti, ma il virtuosismo orchestrale è messo al serivizio di una tessitura sostanzialmente leggera e sempre godibile (si pensi all’accompagnamento in terzine del secondo tema, mirabilmente realizzato).
In tempi di streaming ormai imperante, e senza che si veda la luce in fondo al tunnel in cui è piombato lo spettacolo dal vivo, ci piace pensare che i nostri applausi da casa siano arrivati in qualche modo al grande maestro indiano (anziano sì, ma non per questo meno attivo), ai magnifici professori dell’orchestra e al Teatro alla Scala tutto.