Destino e Necessità
di Roberta Pedrotti
Daniele Gatti offre una lettura difficile da dimenticare, dal taglio quasi leopardiano, del Requiem di Verdi, forte anche della prova magnifica dell'Orchestra Rai, della partecipazione sempre ispiratissima del Coro del Regio, di un quartetto vocale di rilievo - pur con qualche distinguo - con Maria Agresta, Elīna Garanča, Antonio Poli e John Reylea.
PARMA, 2 ottobre 2021 - Il teatro è pieno in ognuno degli ancor troppo pochi posti disponibili. Al Festival Verdi il Requiem è ospite frequente e gradito; nell'ultimo anno e mezzo, come di altri pezzi sacri di carattere simile, lo abbiamo sentito anche più spesso, e con maggior partecipazione se possibile. Eppure, ogni Requiem fa storia a sé e può dire qualcosa di nuovo e diverso sul quello stesso, immenso e impenetrabile tema con il quale tutti, individui e collettività, non possiamo esimerci dal confrontarci.
Ricordiamo, negli ultimi anni, un michelangiolesco Muti nella sala del Regio, poi Maazel in Cattedrale, Temirkanov al Farnese quando il mondo, solo l'altro ieri, era diverso, Roberto Abbado nel parco Ducale, a pochi mesi da Codogno, prima che arrivassero i vaccini. Ora, mentre guardiamo verso la luce cercando di non inciampare, arriva Daniele Gatti, per un Requiem che ci costringe a pensare e di cui sarà difficile non serbare memoria.
Le vicende degli ultimi anni sembrano aver lasciato una traccia nel pensiero musicale del maestro milanese, che stasera ci pare come non mai profondo, meditato, concentrato fino all'essenza. Ama, difatti, anche i silenzi, che non teme di prolungare, lasciando nelle pause il respiro di una visione aliena da concitazioni e magniloquenze, eppure capace di affermare perentoria un dramma senza speranze. Già nel Requiem aetarnam e nel Kyrie si percepisce un'angoscia interiorizzata che non può sfogarsi, ma solo attendere l'asserzione del Dies irae. Il destino inesorabile non può essere cambiato, non può essere compreso: esso semplicemente è. Ἀνάγκη ἐστί , Anànke estì, è destino, è necessario. Basterebbe pochissimo, al gesto di Gatti, per trasformare il rigore in rigidità, e invece rende con misura impeccabile il senso di un fato inevitabile fuori dalle contingenze del tempo. Abbiamo il senso di un tempo immobile, eterno, eppure vibrante di tragicità grazie alla prova davvero ispiratissima, formidabile per contegno e ricchezza, dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. E pazienza se, probabilmente per ragioni sanitarie, non si può realizzare l'effetto della dislocazione delle trombe del giudizio: anzi, quel suono così esatto ma spazialmente più circoscritto e astratto, rende ancor più la dimensione assoluta e interiorizzata di questo Requiem, così come il rombo dei timpani che in platea ci fa sussultare per la vibrazione che dal pavimento ci percorre fino al petto, qualcosa che ci scorre dentro più che sconquassare il mondo di tuoni.
Se anche non ottimale in termini generali, trova un suo senso poetico anche la collocazione del coro del Regio preparato da Martino Faggiani, in parte dietro l'orchestra, in parte nella sorta di balconata offerta dalla scenografia di Richard Hudson per Un ballo in maschera (sia detto per inciso, riosservare una struttura così apparentemente semplice permette di ammirare ancor più la grandezza dell'ideatore). Non sono i decibel a creare l'angoscia, la tragedia, ma è il colore, l'articolazione ritmica e metrica, l'impasto e la complessità del suono. È anche la capacità di dosare le tensioni, come quando, dopo la sequenza e nell'akmé dell'Agnus Dei sembra affacciarsi una luce, un conforto, una forma di pace, che tuttavia non è risolutiva. L'invocazione finale “Libera me, Domine, de morte eterna” sembra rimanere sospesa, senza risposta, come la domanda dell'Islandese alla Natura nell'Operetta morale di Leopardi. Eppure, disillusi, l'elaborazione dell'arte ci permette di non essere disperati.
Maria Agresta proprio nel finale mette in luce i suoi pregi – smalto vocale preziosissimo nel registro centro acuto quando deve filare o modulare con lirica dolcezza – e limiti – un peso vocale che tende a soccombere e affannarsi nei passi più drammatici – sebbene la chiave di lettura impressa da Gatti renda in realtà plausibile anche una delicatezza non esente da fragilità. A Elīna Garanča spetta invece una pacata constatazione d'umanità, fra il calore vellutato e incisivo di Liber scriptus e la luminosità celestiale di Lux eterna, cangiante ed omogenea nell'emissione sia per timbro, sia per intensità, dosati con nobile naturalezza. Antonio Poli mostra una vocalità felicemente maturata, che ha mantenuto smalto e squillo anche acquistando spessore e sembra nata per brillare franca e generosa, ma non sopra le righe, nell'Ingemisco e nell'Hostias. Viceversa il timbro e l'accento di John Reylea appaiono talora un po' troppo corruschi e caricati, ma non gli si può negare una sua torva autorevolezza.
Dieci minuti di applausi si placano solo perché le luci in sala ormai si sono accese e Gatti fa cenno anche all'orchestra di alzarsi e lasciare il palco. La tensione profonda dei novanta minuti del Requiem si riversa in acclamazioni prolungate, ma anche in una comune sensazione che ci accompagna all'uscita, fra l'appagamento e il rovello.