Il trionfo delle voci
di Luigi Raso
Jessica Pratt e Francesco Demuro, con un'eccellente prova musicale sempre declinata nello stile e nelle ragioni espressive del dramma, infiammano il Teatro di San Carlo con La sonnambula di Bellini.
NAPOLI, 30 gennaio 2022 - È un trionfo quello che accoglie al San Carlo, dopo ventuno anni di assenza, il ritorno della Sonnambula, benedetto da ben più di dieci minuti di applausi ininterrotti, preannunciati e preceduti da ovazioni nel corso della serata, bis concessi con generosità e “consapevole sprezzo del pericolo” da Jessica Pratt e Francesco Demuro.
Fin qui il resoconto asettico del finale della serata. Ma quello al quale abbiamo assistito stasera è un successo travolgente, di quelli che a teatro accadono “ogni tanto”, di cui tutti poi parlano, se non altro per dire “io quella sera c’ero!” e che ci impongono di annotare qualche constatazione e piccola (e inutile) riflessione.
Qui ne esponiamo qualcuna: il trionfo non è tributato alle sempiterne e super-rappresentate Tosca, Traviata, Rigoletto, Turandot, Bohéme, ma a un’opera belcantistica, insidiosissima ai fini esecutivi, come tutte quelle ascrivibili a quella stagione aurea del melodramma italiano; e La sonnambula, inoltre, innegabilmente non è un’opera pervasa da bruciante e coinvolgente teatralità; per giunta questa ripresa è eseguita in forma di concerto o, più correttamente, in forma semiscenica: l’orchestra è in buca, i solisti sono sul palcoscenico e accennano movimenti - pertinenti e studiati, c’è da dire - pur in assenza di indicazioni registiche; il coro, infine, è posizionato, distanziato e “mascherinato”, dietro i protagonisti. È la stessa formula esecutiva già premiata da un successo pari per intensità e calore lo scorso luglio.
Breve riepilogo dei fatti: in Piazza del Plebiscito si dava in forma semiscenica Il trovatore (qui la recensione); a causa della minaccia di acquazzoni estivi sulla prima replica dell’opera si decise, con un giorno di preavviso, l’immediato trasloco nella sala del San Carlo: il dream cast (Anna Netrebko, Yusif Eyvazov, Luca Salsi, Anita Rachvelishvili, magnificamente diretti da Marco Armiliato), il genio teatrale, tutto brevità e fuoco, di Salvadore Cammarano e Giuseppe Verdi impiegarono davvero poco ad infiammare di entusiasmo il pubblico in sala. Chi vi scrive ricorda quella serata come una tra le dieci più travolgenti alla quali abbia avuto il privilegio di assistere; opinione condivisa da numerosi spettatori.
Che l’opera nel protagonismo della sola musica e dei divi vocali risulti effettivamente più coinvolgente ed entusiasmate? Due indizi non fanno una prova, ma una constatazione sulla quale riflettere indubbiamente sì.
La sonnambula, quanto a presa sui melomani, non è certo Il trovatore; eppure stasera il pubblico, numeroso, è apparso ipnotizzato e attento sin dalle prime note, immediatamente rapito sin dalla Cavatina di Amina ("Come per me sereno...") dal profluvio di acuti e sovracuti, dalle linee di canto limpide, nobili, ondulatorie di Bellini, così come cesellate da Jessica Pratt. Sì, perché è grazie alla sua lezione di come ben cantare e belcanto che è stata restituita a Bellini la apollinea perfezione delle sue levigate linee melodiche e il giusto compromesso tra colorature, sovracuti e attenzione al testo.
Quella della Pratt è un’Amina che incanta per funambolismo canoro ed eccellenza tecnica: in quanto rivolte ad una tra le interpreti più complete e agguerrite tecnicamente del repertorio belcantistico dei nostri giorni, queste possono apparire affermazioni e considerazioni pleonastiche; eppure ad ogni ascolto del soprano australiano si resta sempre stupiti dalla perfezione e definizione di certi picchiettati - degni del miglior arco di Maxim Vengerov, Leonidas Kavakos e, sia permesso accostarlo a questi mostri sacri del violinismo contemporaneo, del giovanissimo Giuseppe Gibboni -, dalla tecnica perfetta di emissione, dalla messa a fuoco degli acuti, dalla facilità con la quale dispensa fa sovracuti, da come riesca a smorzarli in prolungati diminuendo, dal controllo perfetto del fiato e della linea di canto; e poi c’è Madre Natura che ha donato alla Pratt timbro di rara bellezza, compatto e luminoso nell’intera tessitura. Ed è apparsa anche emotivamente più coinvolgente rispetto al solito, tendenzialmente assorbita dallo splendore tecnico, la caratterizzazione del personaggio: quella della Pratt è un’Amina palpitante, una ragazza pura che esterna, pur nel rispetto di codici espressivi improntati a misura ed equilibrio, sia il proprio intimo tormento per l’accusa infondata di infedeltà, sia la totalizzante e coinvolgente gioia finale. La scena e l’aria finale "Ah, non credea mirarti" è restituita con compostezza drammatica che coniuga intensità e splendore sonoro: fraseggio articolato, acuti smussati, lunghi legati belliniani sostenuti da poderose arcate del fiato sono gli ingredienti che forgiano una scena di sonnambulismo prossima a perfezione esecutiva e immedesimazione psicologica. Si cambiano registro espressivo, colori e pesi sonori con la cabaletta finale "Ah! Non giunge uman pensiero",luminosa e farcita di quel funambolismo di acuti ora spianati ora smorzati che dissipa le nubi melanconiche che si aggiravano sull’aria precedente dalla tinta neutra intrisa di dolore. Qui, nella cabaletta, mutano colore e gli accenti della vocalità della Pratt: tutto è rischiarato mentre vengono elargiti con naturalezza prossima a sfrontatezza fa sovracuti di penetrante intensità, trilli, cadenze a dir poco spericolate. Ovviamente, il tutto è suggellato da un uragano di applausi che impone alla Pratt, quasi commossa e visibilmente soddisfatta, la concessione del bis della cabaletta.
E per una volta, grazie al calore e alla simbiosi creatasi tra pubblico e artisti, si prova quasi piacere nell’ascoltare gli applausi calorosi partire subito dopo gli ultimi acuti, sulla stretta del coro e dell’orchestra. Tante emozioni, per pubblico e artisti.
Francesco Demuro nei panni di Elvino affronta e supera brillantemente due difficoltà: la prima, la scrittura siderale della sua parte - modellata sull’estensione vocale, tecnica e sulle corde espressive di Rubini, di cui, per inciso, nessun vivente può affermare di conoscere con sicurezza come cantasse! - e, la seconda, il confronto diretto e immediato con la collega Pratt. Eppure Demuro riesce a “pareggiare” il certanem canoro: il tenore sardo ha dalla sua un timbro naturalmente bello e suadente, ottimo squillo, eccellente stile belcantista al quale aggiunge qualche tocco di veemenza post belcantistica che rende meno siderale e più virile il personaggio di Elvino; e poi, nel festival degli acuti e sovracuti inaugurato dalla Pratt, non sfigura, anzi: dispensa do e re con precisione e naturalezza, con suono sempre pieno, sostenendoli perfettamente sul fiato, modulandoli. Il suo è un canto sfumato, a fior di labbra, forse stilisticamente meno belcantista di quanto la scrittura richiederebbe, ma di grande efficacia e molto convincente.
Il furore di applausi e ovazioni piombato su di lui dopo la difficilissima cabaletta "Ah! perché non posso odiarti" lo inducono a concedere il bis: acuti ben piazzati, benissimo tenuti, su una linea di canto pulita farcita di accenti vigorosi già apprezzati nel precedente crepuscolare "Tutto è sciolto": anche Demuro, come la Pratt, fa percepire la cesura di emozioni tra aria e cabaletta, grazie al ricorso di mezzi tecnici sicuri e alla ricerca del giusto colore con il quale dipingere ciascuna frase musicale. Be’, limitarsi a lodare i soli aspetti tecnici sarebbe ingeneroso nei confronti dell’artista Demuro, il quale è efficace nel delineare un Elvino che, quanto a visione interpretativa, ha una piede piantato nel repertorio belcantistico e un altro in quello pre-verdiano, dati il fraseggio e gli accenti scultorei di cui spesso di avvale.
Il Rodolfo di Alexander Vinogradov ha voce di basso tipicamente russa: suoni profondi, a tratti eccessivamente cavernosi, ma di rara possanza. Canta la cavatina "Vi ravviso, o luoghi ameni" scolpendo ogni nota con autorevolezza; eppure, dal punto di vista stilistico e vocale, tende a darci l’idea di un Boris Godunov sperdutosi nel villaggio svizzero di Amina.
La parte di Lisa appare sin dalla cavatina "Tutto è gioia, tutto è festa" quasi mortificante per i mezzi vocali ed espressivi di Valentina Varriale, soprano napoletano in possesso di qualità ragguardevoli per volume, bellissimo colore, omogeneità dei registri e per verve interpretativa e scenica. Bandisce subito l’idea - errata! - di una Lisa subrettina e stupidotta per farla diventare una donna arguta e vispa. Bravissima, per spirito e precisione, nella pagina, sebbene di scrittura convenzionale ma dall’accesa coloratura, "De’ lieti auguri a voi son grata", la cui esecuzione le regala il giusto compenso di applausi. Soprano, Valentina Varriale, di estremo interesse, per mezzi vocali, temperamento e musicalità che ci auguriamo di poter presto riascoltare in qualche parte più complessa e articolata.
Proviene dalla neo costituita Accademia del Teatro di San Carlo - progetto fortemente voluto dal sovrintendente Stéphane Lissner e del Direttore del casting Ilias Tzempetonidis su modello dell’Accademia del Teatro alla Scala - l’ Alessio compito e ben cantato di Ignas Melnikas. Fa bene anche il Notaro di Walter Omaggio.
Vogliamo segnalare tra i ruoli secondari la Teresa di Manuela Custer, che si conferma, dopo l’ottima prova nei panni di Emilia nell’ Otello che ha inaugurato la stagione lirica 2021 – 2022 (leggi la recensione): la Custer è un’artista di rango che, grazie ad esperienza e intelligenza musicale, conosce bene le virtù per rendere interessanti ed espressive anche le parti più piccole del repertorio lirico. Chi vi scrive deve confessare di aver un debole per i grandi artisti che si cimentano in piccole parti apportandovi il loro smisurato bagaglio di conoscenze, competenza, esperienza e musicalità: Manuela Custer è a pieno titolo riconducibile a detta categoria.
Altro personaggio (sic!) della Sonnambula è il Coro, il quale dà colore, riempie e commenta l’azione, amalgamandosi con i protagonisti in un unicum musicale inscindibile.
Il Coro del San Carlo ci sta abitando a prestazioni di qualità pregiatissima; stasera la compagine, preparata dall’ottimo José Luis Basso, ha restituito colori, dinamiche, accenti e idiomaticità alla parte del “personaggio corale” dell’opera dipingendo un affresco musicale paragonabile, per definizione e pulizia delle linee e varietà di colori, a quelli della pittura quattrocentesca toscana.
Infine, richiede un discorso più articolato la concertazione del giovane Lorenzo Passerini, talentuoso giovane direttore, al suo debutto al San Carlo.
Contrariamente a ciò che si è portati a pensare, quello belcantistico, per i direttori d’orchestra, è repertorio estremamente difficile per capacità di calibrare l’orchestra sul canto, “guidarla” sul fiato, tener ben cementate buca orchestrale e palcoscenico, scelta dei tempi, uso del rubato, capacità di rendere plastica e viva la melodizzazione adoperando un fraseggio analitico e vario. Il giovane Passerini supera, al netto di qualche slabbramento agogico (alcune scene avrebbero meritato maggiore incisività e speditezza nella scelta dei tempi, qualche stretta minor concitazione e fragori dinamici), con onore la prova della Sonnambula, opera che è un campo minato di insidie esecutive.
Passerini comunque è molto bravo ad accompagnare, a sostenere il canto con il giusto dosaggio dei pesi sonori e con un fraseggio orchestrale variegato che coadiuva efficacemente le esigenze canore. L’orchestra del San Carlo, in splendida forma, asseconda perfettamente il gesto del direttore.
Del trionfo finale si è scritto in apertura di questa recensione.
Qui ci limitiamo a registrare l’entusiasmo che ha contagiato (dati i tempi che attraversiamo, verbo quanto mai ben poco apotropaico) l’intera sala.
Al termine dell’opera si constatava tra amici che dopo la chiusura del teatro dello scorso anno, il contingentamento dei posti e tutte le limitazioni imposte dalla sacrosanta esigenza di contrastare il dilagare della pandemia il pubblico appare più attento, più disciplinato durante gli spettacoli, molto più incline a spellarsi le mani per gli applausi alla fine dello spettacolo e meno lesto nel conquistare il primo taxi disponibile fuori il teatro: “l’assidua penitenza, le veglie, l’astinenza” ci hanno fatto apprezzare ancor di più l’opera e il suo contorno? Speriamo di sì!
Per chi c’era - molti, ma non moltissimi come l’esecuzione avrebbe meritato - una serata da ricordare e che ci ha riempito di adrenalina ed energia. La speranza è di riassaporare un simile entusiasmo tra pochi giorni - dal 15 febbraio - quando l’arcidiva Anna Netrebko vestirà i panni di Aida.