In francese, una tantum
di Francesco Lora
Con manifesta eccentricità di proposta, il Festival della Valle d’Itria apre a Prokof’ev, e a Igrok nell’originale russo preferisce Le joueur in traduzione francese. Validi la direzione di Jan Latham-Koenig e lo spettacolo con regìa di David Pountney, scene e costumi di Leila Fteita e luci di Alessandro Carletti. Nella simpatica onestà della compagnia di canto si distingue Silvia Beltrami.
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Martina Franca, il Festival della Valle d'Itria 2022
MARTINA FRANCA, 24 luglio 2022 – Il russo Igrok di Sergej Prokof’ev, ossia il suo Giocatore, ebbe subito un corso accidentato. Composto nel 1915-16, fu messo in cantiere e poi sabotato dal Teatro Marinskij di Pietroburgo; era nella valigia del compositore (e librettista) durante il successivo viaggio negli Stati Uniti, ma in sola riduzione per canto e pianoforte, sicché, con la rivoluzione scoppiata in patria e l’impossibilità di farsi recapitare la partitura, a Prokof’ev, richiesto di un’opera, convenne approntarne una tutta nuova, Ljubov k trëm apel’sinam, poi presentata in versione ritmica francese come L’amour des trois oranges, ossia L’amore delle tre melarance. Dopo aver composto Ognenny angel, ossia L’angelo di fuoco, nel 1927 egli riuscì a recuperare la partitura di Igrok e volle sottoporla, vista l’esperienza internazionale acquisita, a un’incisiva revisione delle parti vocali (perfezionate) e della strumentazione (alleggerita). La scena di Pietroburgo, ora ribattezzata Leningrado, perseverò tuttavia a rifiutarla, anche ora che quel soggetto, tratto da Fëdor Dostoevskij, s’adattava al contesto sovietico assai meglio che a quello zarista: vi si fa infatti una tagliente satira sociale sulla dipendenza dal gioco d’azzardo, malattia non tanto del proletariato quanto della società borghese, ereditiera e annoiata. Igrok attese insomma il 1963 per essere ascoltato in Unione Sovietica e in lingua originale, ma anche allora ciò avvenne in forma di concerto e dieci anni dopo la morte dell’autore. L’opera era nondimeno stata allestita, nel 1929, al Théâtre royal de la Monnaie di Bruxelles, dove un cordiale successo aveva favorito la sua ripresa l’anno successivo. Nell’occasione il libretto russo era stato voltato in versione ritmica francese da Paul Spaak e reintitolato Le joueur: all’opposto di quanto avvenne nel caso dell’Amour des trois oranges, la traduzione non fu però d’aiuto a una più vasta circolazione dell’opera.
A inaugurare il XLVIII Festival della Valle d’Itria, nell’atrio del Palazzo Ducale di Martina Franca, il 19 luglio e con tre repliche fino al 6 agosto, è appunto stato non l’Igrok di Leningrado, opera oggi di repertorio nelle stagioni liriche di mezzo mondo (se non proprio italiane), bensì Le joueur di Bruxelles, curiosità una tantum che nulla di sostanziale aggiunge alla conoscenza del lavoro. Anzitutto, la proposta è insolita in una rassegna votata da quasi cinquant’anni – con ampiezza, utilità e coerenza: non v’è ragione artistica o strategica di cambiare, né lo chiede il pubblico consapevole e affezionato –alle opere rare, in primis italiane e di belcanto dal Sei all’Ottocento. Il lavoro di Prokof’ev non corrisponde ad alcuna delle categorie dette e cede invece campo, con la sua apparente gratuità e la sua manifesta eccentricità di proposta, a infruttuose ricadute d’impatto politico da non prendere alla leggera nei giorni presenti. (Nel programma preliminare del festival, fino all’inizio della primavera scorsa, era peraltro previsto non questo Joueur – opzione tardiva – bensì un’opera del Novecento storico italiano, Delitto e castigo di Arrigo Pedrollo, anch’essa su un soggetto dostoevskiano; pare che il progetto sia fallito per irreperibilità, non tempestivamente messa in conto, dei materiali d’esecuzione: un imprevisto più frequente di quanto si possa credere anche a proposito di lavori piuttosto vicini all’attualità.) Il nuovo direttore artistico, Sebastian Schwarz, successore di Alberto Triola, avrà modo di dimostrare più oltre la bontà delle propri intenzioni: per ora si registra, con positivistica crudezza, una platea ridotta nel numero di posti – la tribuna sul fondo non è più stata ripristinata, dopo le coronarivulente estati dei due anni scorsi – eppure lontana dal pienone vantato nelle edizioni andate, nonché un certo perplesso mugugnare di melomani alla colazione della mattina dopo.
Il punto di forza dell’allestimento martinese è nella meticolosa concertazione e nell’incisiva direzione di Jan Latham-Koenig: la sua bacchetta graffia, sferza e smaglia a dovere l’incedere di questa partitura fatta di ritmi dal motore ossessivo e d’intuizioni timbriche audaci. Il merito cresce giacché l’Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari, avvezza ad altro repertorio, risulta acclimatata con entusiasmo nella lettura del maestro, e giacché l’acustica del cortile, ingrata verso masse orchestrali corpose e rimbombanti, v’è tenuta abilmente a bada. Sul versante teatrale, la locandina è lussuosa nei nomi e puntuale negli esiti. La regìa di David Pountney si mantiene aderente alla didascalia o almeno al suo spirito originale, lavora a sufficienza con gli attori e può contare, in misura determinante, sul gioco di luci di Alessandro Carletti nonché, a maggior ragione, sulle scene e i costumi di Leila Fteita: le une sono costituite da una colossale roulette deformata, gli altri sono ispirati direttamente al Futurismo russo. Una pesante ipoteca grava sulla compagnia di canto: s’è scelto di dare un’opera russa nella sua peregrina versione francese, ma nessun interprete risulta poi essere di madrelingua, o di possedere l’idioma con piena proprietà fonetica e malizia retorica. (Ulteriore paradosso: diversi cantanti sono slavi e se la sarebbero cavata presumibilmente bene col russo.) Una simpatica onestà caratterizza, così, senza che molto s’abbia da aggiungere, il Generale di Andrew Greenan, la Pauline di Maritina Tampakopoulos, l’Alexis di Sergej Radchenko, il Marchese di Paul Curievici, il Mr. Astley di Alexander Ilvakhin, la Blanche di Ksenia Chubunova e il Principe Nilsky di Sandro Rossi. Lo spettacolo scatta invece sull’attenti all’entrare in scena dell’imperiosa Silvia Beltrami nella parte della Nonna; e tra gli appassionati in platea è tutto un sussurrare compiaciuto: «Brava la vecchia! Brava!».