L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Venezia da teatro e da chiesa

di Francesco Lora

Un assai problematico allestimento di Xerse di Francesco Cavalli, da una parte, e un eccellente concerto sulla Selva morale e spirituale di Claudio Monteverdi, dall’altra, si pongono agli antipodi nel Festival della Valle d’Itria, tra la lettura teatrale di Leo Muscato e quelle musicali di Federico Maria Sardelli.

Martina Franca, Le joueur, 24/07/2022

Martina Franca, Xerse – Selva morale e spirituale, 25-28/07/2022

Martina Franca, il Festival della Valle d'Itria 2022

MARTINA FRANCA, 25 e 28 luglio 2022 – Se si considerano il libretto, la partitura e la loro tradizione, le fonti d’archivio, la conoscenza dei fatti storici e della prassi esecutiva, si ottiene un’idea pulita e pressoché oggettiva circa la consistenza di quel Xerse con versi di Nicolò Minato e musica di Francesco Cavalli, nella versione originale data a Venezia nel 1655. Si tratta di un dramma in un prologo e tre atti, dove serio e comico convivono in equa misura – così, di norma, nell’intero genere dell’opera impresariale secentesca – educando laicamente e divertendo lo spettatore lungo ogni registro teatrale e di vita. Si tratta, nel contempo, di tre ore abbondanti di musica, dove la semplicità di scrittura delle parti vocali obbliga tanto più i cantanti a essere ottimi attori mediante la parola, e dove l’orchestra si limita ad archi (un solo esecutore per parte) e basso continuo (strumenti per poche unità): tratti comuni, anche questi, nel genere tutto. Si tratta di un lavoro, poi, che dà buon conto della fisionomia di un’opera mediocre – cioè normale, non per questo cattiva – alla sua altezza storica: Cavalli non era ancora maestro nella cappella ducale di S. Marco, e comunque investiva i suoi più impegnati sforzi nel genere sacro; degno del successo, più che una musica di buona ma ordinaria fattura, fu il libretto, raffazzonato e riutilizzato almeno fino alla revisione di Silvio Stampiglia per Giovanni Bononcini (Roma 1694), indi, a partire da quest’ultima, fino a quella di un ignoto – non inverosimilmente il compositore stesso, capace – per Georg Friedrich Händel (Londra 1738).

Al Festival della Valle d’Itria s’è voluto andare a risvegliare quest’opera molto citata, poco studiata e – pare – mai ripresa su scena in età contemporanea: tre recite dal 25 al 31 luglio, a Martina Franca, non nell’usuale aperto dei cortili, bensì, ancora durante una pandemia, al chiuso del Teatro Verdi, edificio storico di pregio fatta salva un’acustica ingenerosa. Non solo per ragioni acustiche n’è venuto fuori uno spettacolo assai problematico, come un buon numero di recensioni – questa non prima né ultima – va dettagliando. Nell’allestimento con regìa di Leo Muscato, scene di Andrea Belli e costumi di Giovanna Fiorentini, Xerse finisce ridotto a mera opera comica, faceta, dove i temi inveterati del dovere, dell’amore e del potere vanno incontro a una preoccupante ridicolizzazione. Per un’iniziativa ascrivibile – come oggi, a gerarchia ribaltata, s’usa fare – più al regista che al concertatore, la lunga opera è destrutturata in due parti e stagliuzzata entro misere due ore e mezza. Diversi personaggi subiscono la soppressione e le loro battute sono eventualmente dirottate su altri (con rabberci musicali). Un’idea invasiva e scellerata, infine, dissesta il ritmo della parola e della musica: avviene, cioè, che ogniqualvolta – molto di frequente – un personaggio dica qualcosa tra sé, l’attore batta le mani e immobilizzi l’azione circostante, riattivandola poi con un altro colpo di mani; alla milionesima occorrenza, l’espediente, incompatibile con la musica e teatralmente infantile, non solo ha distratto l’interprete e stancato lo spettatore, ma anche ha perso ogni efficacia.

Addolora che un musicista d’alta levatura intellettuale quale Federico Maria Sardelli, il concertatore qui incaricato, abbia lasciato correre i detti arbitrii anziché opporre una responsabile intransigenza. Né questo Xerse martinese rimarrà tra le sue letture dalle spalle forti: nessun possibile scambio col regista, poca intesa con cantanti a lui estranei, gli strumentisti del suo Modo antiquo non brillanti d’esattezza e con un chiassoso cornetto torto aggiunto a sovrastare la misura degli archi (per tacere del fatto che tale strumento aveva applicazione in àmbito ecclesiastico e non teatrale, salvo quelle eccezioni che tali rimangono e giovano unicamente a confermare la regola). Fa sorridere che il Festival, in buona fede, si sia fregiato di presentare la nuovissima edizione critica dell’opera, sottoposta forse mai più che qui, invece, a indebita corruzione. La compagnia di canto annaspa, in ampia parte, per due ragioni compresenti: una pratica artistica dell’italiano non da madrelingua, o non degna di un madrelingua passato al palcoscenico, e la frequente estraneità vocale dell’interprete alla tessitura della parte. Un pasticcio che è dunque, anzitutto, di casting. Sanno cavarsela bene gli italiani di più lunga e versatile esperienza: Carlo Vistoli, come antieroe eponimo persin sovradimensionato nell’esile contesto, indi Gaia Petrone, come Arsamene, e Nicolò Donini, come Aristone. Spiace ascoltare un vecchio leone, Carlo Allemamo, coturnato tenore da opera seria settecentesca, umiliarsi nell’inadattissima parte di Ariodate. Si esita a riconoscere le note, buone qualità di Carolina Lippo nella sua Romilda.

L’intonazione non è il punto forte di Dioklea Hoxha come Adelanta, mentre Aco Bišcevic poteva almeno rifugiarsi nella buffoneria di Elviro. Per l’Amastre di Ekaterina Protsenko e il Periarco di Nicolò Balducci, due soprani, una più fruttuosa occasione di mostrare la passione per il Seicento musicale è arrivata il 28 luglio, col concerto nella Basilica di S. Martino. Programma formidabile, poiché basato sulla Selva morale e spirituale di Claudio Monteverdi: è il suo testamento di retorica sacra (Venezia 1641), pubblicato a complemento di quello di retorica profana, i più noti Madrigali guerrieri et amorosi (ivi 1638). Ecco le musiche tratte dall’enciclopedica raccolta, oggi troppo spesso, colpevolmente trascurata: i salmi Confitebor II, Laudate pueri I e Beatus vir I, l’inno Iste confessor [II], i mottetti Ab aeterno ed Ego flos campi, infine il Pianto della Madonna contraffatto sul celebre Lamento d’Arianna; inoltre, brani strumentali – o ridotti per strumento – di Dario Castello e Giovanni Paolo Cima. È il momento della rivincita, con Sardelli lucidissimo e magniloquente nel rendere la vertiginosa concezione monteverdiana, un limpidissimo Modo antiquo e solisti assai sottili nel porgere affetti latini: i soprani detti, ma anche il contralto Sandro Rossi, il tenore Joan Folqué e il basso Yuri Guerra. Il musicologo inesorabile si lega al dito giusto due cose: il trombone che fa le veci di un assente Tenore II, senza però coincidere nel timbro e supplire nelle parole, e l’affidamento dell’ultima strofa dell’inno ai due soprani in unisono, con una viltà d’effetto che mai il pensiero dell’epoca avrebbe ammesso.


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