Agenda barocca
di Francesco Lora
È rimasto da dire di Acis et Galatée di Lully al Maggio Musicale Fiorentino, di San Ignacio di Zipoli e Schmid al Festival delle Nazioni di Città di Castello, nonché di Silla di Graun, L’amazone corsara di Pallavicino e L’Astarto di Bononcini al Festival di Musica antica di Innsbruck: spettacoli che compongono un quadro sull’opera (cosidetta) barocca, con agenda alla mano a proposito di spettacoli futuri.
FIRENZE / CITTÀ DI CASTELLO / INNSBRUCK, 11 giugno - 23 agosto 2022 – Come se la cava l’opera (cosiddetta) barocca più comodamente raggiungibile da parte del pubblico italiano? La fondazione lirica che contribuisce con più costanza alla causa, da decenni, è il Teatro La Fenice di Venezia. Soprattutto Cavalli, Vivaldi e Handel ricorrono con regolarità nei suoi cartelloni, con un’ulteriore, specifica attenzione, di confine, verso il Wolfgang Amadé Mozart giovane. Giovane e anzi ragazzo, visto che dal 7 ottobre andrà in scena quell’Apollo et Hyacinthus composto ad appena undici anni, mentre dal maggio all’ottobre del 2023 passeranno in rassegna La Bellezza ravveduta nel trionfo del Tempo e del Disinganno di Handel, Orfeo ed Euridice di Gluck e Orlando di Vivaldi. Tutto meritorio. Il tallone d’Achille del teatro veneziano rimane quello di quasi ogni altra fondazione lirica italiana: dover ricorrere innanzitutto o in esclusiva alla propria orchestra e al proprio coro, formati per eseguire Rossini, Verdi e Puccini, ma ancora poco esperti di prassi esecutiva antica e sprovvisti di strumenti all’antica. Questi ultimi, allo stato attuale della coscienza storica e stilistica, sono infatti divenuti una condizione fondata e imprescindibile, di pari passo con la ri-alfabetizzazione degli interpreti presso le fonti musicali del Sei-Settecento. I teatri di tradizione hanno mani più libere: per esempio, in una cordata tra Ravenna, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Modena e Lucca si potrà assistere, nel prossimo inverno, a un “pasticcio” di Vivaldi, Il Tamerlano, che altri chiamano Baiazet e che in tutte le piazze dette avrà un’orchestra di specialisti, Accademia Bizantina.
La fondazione lirica più intraprendente, seppure in via episodica e un po’ a sorpresa, ma con gesti forti che prospettano un futuro, è il Maggio Musicale Fiorentino, cioè un’istituzione che, col rombo di motore delle proprie maestranze, potrebbe tranquillamente dedicarsi tutta a Mahler e Strauss. Ecco allora l’occasione per ricordare il formidabile concerto diretto Zubin Mehta, nella sala grande, lo scorso 11 giugno, dove il Titan dell’uno e l’Also sprach Zarathustra dell’altro hanno moltiplicato il loro status di capolavori, attraverso la mobilissima agogica loro impressa dalla bacchetta, secondo un’autentica e sempre più rara tradizione viennese, nonché attraverso un tessuto orchestrale pronto a passare, ineffabilmente, fulmineamente, dalla sfumatura impalpabile al gesto mordace o al terremoto splendido, rivelando infiniti testi dentro quei due soli. Bene: proprio in tale contesto, dal 4 all’11 luglio scorsi, nel suo Auditorium, il MMF ha onorato il genius loci Lully, restituendo alle scene uno tra i suoi lavori più maturi eppure negletti, Acis et Galatée, pastorale héroïque del 1686. Lo spettacolo con regìa di Benjamin Lazar, scene di Adeline Caron, costumi di Alain Blanchot, luci di Christophe Naillet e coreografia di Gudrun Skamletz è piaciuto soprattutto in quanto non ha disturbato troppo, preoccupandosi almeno di leggere il libretto prima di volerne dare una lettura – non se ne uscirà mai, come se questa fosse una non negoziabile esigenza del pubblico – attualizzata. Ma la vera novità è che i musicisti del MMF, orchestra e coro, si sono mostrati periti di prassi esecutiva, fino a imbracciare strumenti antichi o adeguare quelli moderni alla giusta fonica. Il traghettatore della magnifica operazione era Federico Maria Sardelli, che nel Seicento francese ha un repertorio d’elezione grazie alla sua benedetta sottigliezza intellettuale, e che ha qui dato una prova tra le più immaginifiche del suo multiforme talento: una concertazione da lucciconi agli occhi. Compagnia di canto internazionale per passaporti e scuole, e dunque di formazione inedita, visto che le opere di Lully sono di solito ben monopolizzate dai madrelingua francesi: vincono le doti individuali ma ancora di più le attitudini di squadra, dall’etereo Acis di Jean François Lombard alla delicata Galatée di Elena Harsányi e al torvo Polyphème di Luigi De Donato, fino alla completa affidabilità di Sebastien Monti come Apollon, Télème e Sacerdote di Giunone, di Guido Loconsolo come Neptune, di Mark van Arsdale come Comus e Tircis, di Francesca Lombardi Mazzulli come Abbondanza, Aminte e prima Naiade, infine di Valeria La Grotta come Diane, seconda Naiade e Scylla; inutile ribadire la spigliatezza espressiva e la sostanza timbrica degli italiani.
A Firenze si prosegue anche con l’importazione di compagini specializzate. Dal 18 al 26 ottobre, nell’Auditorium del MMF, vi saranno cinque imperdibili recite di Alcina di Handel, nell’allestimento scenico salisburghese con la regìa di Damiano Michieletto, e con le parti protagonistiche tenute da Cecilia Bartoli, la sacra romana imperatrice del canto barocco, e da Carlo Vistoli, di gran lunga il più forbito controtenore italiano. L’orchestra sarà quella dei Musiciens du Prince di Monte Carlo, con i loro strumenti antichi e la direzione specialistica di un fido feudatario bartoliano, Gianluca Capuano. Agenda alla mano anche a proposito del Teatro alla Scala. Dal 4 al 21 aprile prossimi pure l’orchestra milanese imbraccerà strumenti antichi per Li zite ’n galera di Leonardo Vinci, nella speranza che il regista, Leo Muscato, non fallisca il colpo come già gli è occorso coram populo nel Xerse di Cavalli all’ultimo Festival della Valle d’Itria, nonché nella speranza che scomodare questa ordinaria commeddeja pe museca in lingua napoletana giustifichi coi risultati esecutivi il non aver optato per i veri grandi capolavori vinciani, le opere serie. Un concerto da non perdersi per nulla al mondo sarà poi, sempre alla Scala, il 14 giugno, quello con in locandina l’intero Carlo il Calvo di Porpora, un capolavoro del 1738 qui affidato, tra gli altri, alla direzione di George Petrou, al canto di Julia Lezhneva e agli strumenti antichi di Armonia Atenea.
Piace quando i massimi teatri italiani agiscono un tantino anche da festival, integrando nei loro programmi ospitalità che ne ampliano assai la proposta. Quanto ai festival italiani veri e propri, l’attenzione alla musica antica, se essi non sono monografici, rimane altalenante e con mezzi ed esiti spesso discutibili: si è già fatto cenno al problematico Xerse di Martina Franca. Nel compulsare i programmi anche delle rassegne più peregrine, però, balzano fuori iniziative impensate. Il Festival delle Nazioni di Città di Castello, per esempio, ha un rapporto di vecchia data con quel Gabriel Garrido che fece meraviglie, negli anni intorno al 2000, soprattutto per la spregiudicata ma geniale fantasia nel rileggere Monteverdi e per l’abnegazione nel recuperare la musica missionaria dell’America latina. Non lo si è quasi più visto in giro, da diversi anni, a causa di una saluta dolorosamente compromessa, ma lo scorso 25 agosto è tornato appunto a Città di Castello, nella chiesa di S. Domenico, per riprendere un vecchio cavallo di battaglia: San Ignacio, una breve opera gesuitica di primo Settecento, composta a più mani tra le quali quelle di Domenico Zipoli e Martin Schmid. Concertata da Garrido, da oltre vent’anni essa è stata fatta oggetto di un’incisione discografica e ha girato il mondo in un’agile versione scenica, incantevole con quegli angeli dalle ali pappagallescamente dipinte a colori vivaci e spagnolescamente armati di moschetto scaccia-diavolo. Ha commosso ritrovare Garrido, con la caratteristica policromia timbrica suscitata, e quella perfetta versione scenica. Peccato però che i tempi siano di vacche magre, e che al Festival delle Nazioni si sia tirata la cinghia: l’Ensemble Elyma aveva strumenti ridotti al meno che indispensabile – la parte della tromba concertante è stata strimpellata sul piccolo organo – e nel gruppo vocale non c’erano più l’Elena Cecchi Fedi o il Furio Zanasi dei bei tempi andati; v’erano invece Barbara Kusa come San Ignacio, Maximiliano Danta come San Javier, Laura Giavon e Maximiliano Baños come Angeli-messaggeri e Franco Celio Cioli come Demonio: i signori, va detto, assai più partecipi, dotati, consci e impegnati rispetto alle signore.
Basta poi fare poche decine di chilometri oltre il confine italiano per ampliare di botto l’offerta artistica e le relative considerazioni. Il Festival di Musica antica di Innsbruck, folto di italiani ma non sempre di italianità nelle locandine, ha presentato anche la scorsa estate un programma ove, tra decine di concerti, spiccavano tre produzioni operistiche incentrate su titoli rarissimi: discuterle insieme restituisce uno spettro del bene e del male nel benvenuto riproporli. Il primo titolo, con tre recite dal 5 al 9 agosto nel Tiroler Landestheater, è stato Silla di Carl Heinrich Graun, risalente alla Berlino del 1753 ed ecletticamente, adorabilmente confuso tra spampanamento dello stile galante e prodromi dello Sturm und Drang; la versificazione del libretto, in italiano, è di Giovanni Pietro Tagliazucchi, ma il dramma si deve nientemeno che a Federico II di Hohenzollern, il bellicoso ma intellettuale re di Prussia. Sul fronte interpretativo, ottime le intenzioni ma deludenti le attuazioni. Alla testa della Festwochenorchester, il concertatore Alessandro De Marchi, anche direttore artistico al suo ultimo anno di mandato, pare procedere alla calligrafia prima di aver stabilito i contenuti della lettura: ne deriva un’esecuzione musicale che pone l’ascoltatore davanti a un piatto complesso e non si preoccupa di invogliarlo spiegandoglielo. Il regista Georg Quander e la scenografa e costumista Julia Dietrich, a loro volta, azzardano il recupero di scene in fondali dipinti, monocromatici e in prospettiva, ma sottovalutano il compito di ben illuminarle, e insieme si smarcano da un’avvincente resa drammaturgica e dall’attento lavoro con gli attori. La compagnia di canto, lasciata a sé stessa, vanta un’isolata punta di diamante nella Fulvia di Roberta Invernizzi, la quale fraseggia smaliziata in virtù della lingua madre, dell’esperienza scenica e di un canto talmente declinante, dopo tanti anni di carriera, da imporre su di sé tutta l’ammirata attenzione dello spettatore. Appropriata ma più timida Eleonora Bellocci, che pure, come Ottavia, starebbe tenendo il ruolo della prima donna. La parte tenorile di Crisogono contiene una diabolica aria di bravura, che Mert Süngü, belcantista da Ottocento, espugna spavaldo e quasi facendo le fiche agli smunti tenorini inglesi, francesi e tedeschi venduti sul mercato della musica (cosiddetta) barocca. Male i ben quattro controtenori chiamati a reggere il toto delle parti virili in chiave di Soprano o Contralto. Male poiché non v’è alcuna ragione storica di rimpiazzare i castrati con falsettisti anziché con donne, e male poiché non basta un qualsivoglia controtenore a garantire delle asperità di una parte vocale. Dal rinomato Bejun Mehta, nella parte titolare, via scendendo a Samuel Mariño, Valer Sabadus e Hagen Matzeit, come Postumio, Metello e Lentulo, rispettivamente, si tratta di emissioni affannose, di estensioni forzate, di registri frantumati e di pronunce ostrogote, anche per via dell’assegnazione di ciascuno a tessiture poco congeniali.
Il secondo e il terzo titolo, a Innsbruck, erano L’amazone corsara overo L’Alvilda, regina de’ Goti di Carlo Pallavicino, perfetto esempio di opera veneziana alla poco frequentata altezza cronologica del 1686, e L’Astarto di Giovanni Bononcini, opera applaudita a Roma nel 1715 e qui proposta nell’inedita revisione londinese del 1720: nel primo caso, quattro recite dal 18 al 23 agosto, nella Haus der Musik; nel secondo, due sole recite il 25 e 27 del mese, nel Tiroler Landestheater (qui si dà conto della prova generale). Nell’Amazone corsara, pressoché tutto l’interesse critico è stato preso dall’economico ma paradigmatico allestimento con regìa, scene e costumi del tenore, attore e flautista Alberto Allegrezza. La differenza è fatta dall’affidare il lavoro a chi sa cosa concretamente significhi sporcarsi le mani, con la parola, il gesto e la musica, pur non intendendo retrocedere di un millimetro da una drammaturgia personale e minuziosa. Va riferito in particolare del lavoro con gli attori, tutto inserito nel filologico recupero della gestualità barocca, la quale traduce in immagini il senso delle parole: guarda un po’, così procedendo si assiste a recite nelle quali ciascun cantante riempie la scena senza che vi sia bisogno di controscene e senza contravvenire ai tempi della musica. Per il resto, si è trattato di uno spettacolo di giovani cantanti pressoché al debutto: Helena Schuback come Alvilda, Hannah De Priest come Gilde, Marie Théoleyre come Fama e Irena, Julian Rohde come Alfo, Shira Patchornik come Olmiro, Rocco Lia come Ernando e Rémy Brès-Feuillet come Delio. Tutti, tranne un solo madrelingua italiano, nuovamente affetti da una pronuncia impossibile, tale da far divenire la parola non un sostegno, ma un ostacolo al canto: basterebbe che lasciassero perdere l’ennesima fuffosa masterclass e venissero in Italia a fare conversazione, emendandosi così dal loro più impediente difetto. Dal regista hanno intanto ricevuto una lezione preziosa. Non, invece, dal concertatore Luca Quintavalle, il quale, alla guida della Barockorchester Jung, si qualifica staccando le mani dal clavicembalo per percuotere un tamburello basco – un esempio delle infondate contaminazioni popolaresche cui l’opera secentesca finisce più che mai oggi soggetta – e nell’insieme mostra familiarità parziale con i bisogni del canto e il ritmo di un dramma.
Quanto all’Astarto di Bononcini, ne è uscito il capolavoro del Festival e di tutta l’estate musicale barocca qui e altrove ripercorsa. Prima ragione: non una partitura scelta casualmente, utile soltanto a mostrare la medocrità di un determinato contesto spazio-temporale, ma un vero capolavoro da riscoprire. Seconda ragione: la luminosa, idiomatica, equilibrata direzione di Stefano Montanari, che ha preferito la via dello studio a quella del fàmolo strano, ponendosi così a servizio del testo: musica e dramma respirano con naturalezza insieme, nemmeno una battuta finisce tagliata, i cantanti non sono mai ostacolati, il pubblico si dimentica di tossire e sbadigliare. Terza ragione: la regista Silvia Paoli aveva fallito su tutta la linea nella recente Lucrezia Borgia di Donizetti al Teatro Comunale di Bologna, ma qui rasenta la perfezione teatrale con una lettura tanto più rispettosa di parola e musica quanto più innervata di sapida ironia; il libretto di Apostolo Zeno e Pietro Pariati restituisce in tal modo la sua trascinante brillantezza, pur in parallelo con un’azione attualizzata e grazie a una fluidità attoriale di livello cinematografico. Ottimi, dunque, per forza d’iper-caratterizzazione, anche i costumi di Alessio Rosati e le scene di Eleonora De Leo, senza dimenticare le immacolate file strumentali dell’Enea Barock Orchestra: un’orchestra italiana, come tutta l’impronta di questa produzione. Anche la metà straniera della compagnia di canto, del resto, risulta naturalizzata come meglio non si potrebbe: Elisa, la prima donna, spetta a una Dara Savinova – notevole virtuosa – capace di avvampare e raggelare, con quella sua voce slava di diamante e con quel suo recitare insinuante; Sidonia, la seconda donna, trova in Theodora Raftis un divertimento scenico che la dice lunga sul nullo disagio in una parte vocale invece esigente, e lo stesso va ripetuto per l’Agenore di Ana Maria Labin, capace di tratteggiare una virilità anche grottesca senza rinunciare alla forbitezza del canto. Del pari eccellente sarà allora, manco a dirlo, la metà di madrelingua italiana: Francesca Ascioti, come protagonista dissimulato sotto il nome Clearco, eredita una parte concepita per il Senesino e le presta qui un timbro di velluto, là energiche semicrome sgranate; Paola Valentina Molinari, come Nino, è campionessa di autoironia istrionica anche perché non permette che le si trovi addosso una sola nota fuori posto; Luigi De Donato, infine, completa una locandina inappuntabile con una prestanza baritonale e un’esuberanza scenica persin maggiori di quanto presupponga la parte di Fenicio. Ed ecco fatto un quadro su come se la cava – anche strabene – l’opera (cosiddetta) barocca.