Prima il podio, poi la regìa
Al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, Ernani di Giuseppe Verdi grandeggia più per la concertazione di James Conlon che per la regìa di Leo Muscato. In primo piano, il canto di Francesco Meli, María José Siri e Roberto Frontali.
FIRENZE, 10 novembre 2022 – Non deve sorprendere, poiché questo titolo è più popolare oggi di quanto lo sia stato negli ultimi decenni: Ernani di Giuseppe Verdi non si vedeva, a Firenze, dal 1965, e vi torna ora per cinque recite dal 10 al 20 novembre, nell’auditorium del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino. Nell’ultimo anno il bisogno, lì, ha aguzzato l’ingegno: finché la grande sala teatrale è sotto manutenzione straordinaria, le recite d’opera sono state trasferite nell’auditorium e hanno dato luogo a spettacoli completi, dal punto di vista drammaturgico e visivo, a dispetto di spazi ristretti e provvisori. Ciò in generale. Nel particolare, a Ernani sta andando maluccio. L’attesa, oggi, è che il regista stressi con una radicale rilettura drammaturgica il testo d’opera affidatogli: un procedimento utile a stimolare il senso critico del pubblico ma, per la verità, non necessario in assoluto. Necessario in assoluto è, invece, l’accurato lavoro con gli attori anziché l’abbandono dei cantanti a sé stessi sulla scena; necessario in assoluto è, del pari, mettere correttamente a fuoco la natura del testo prima di tradurlo in pre-testo registico. Per gradi: com’è tipico di soggetti tratti da Victor Hugo, Ernani conserva una sferzante alternanza di tragedia e commedia, con alto tasso d’ironia assecondato con eleganza dal librettista Francesco Maria Piave e da Verdi stesso; è il fenomeno che si ritrova – a riconferma – nella Lucrezia Borgia di Felice Romani e Gaetano Donizetti, altra opera tratta da Hugo. Sven-Eric Bechtolf restituì in modo magistrale questa ambivalenza di Ernani nella sua regìa del 2018 per il Teatro alla Scala, spiazzante al primo impatto e invece così azzeccata da pungolare ancora la mente nei ricordi. Chi manca il bersaglio è invece il Leo Muscato che firma la regìa fiorentina: lo manca poiché sembra trovare nell’auditorium e in Ernani non una sfida tecnica e testuale, bensì una giustificazione per astenersi dal lavoro concettuale e scenico che fa sporcare le mani. C’è allora la solita trasposizione temporale, tre secoli avanti, all’epoca della composizione dell’opera: non è dato cogliere, però, il perché di tale scelta, fosse anche solo il prevedibile richiamo risorgimentale. C’è invero una singola idea al di sopra delle didascalie, e sono i mimi che, come Silva nell’atto IV, si aggirano «vagolando in nero ammanto»; ma sai che idea, a fronte di un testo già esuberante da coordinare nella sua consistenza letterale! Ci sono infine gli oleografici costumi ottocenteschi di Silvia Aymonino e le scene di Federica Parolini, queste ultime, di fatto, un impianto astratto che annulla la specificità degli spazi e che obbliga, con i suoi ingombranti movimenti, a liberare il palcoscenico senza ragione drammatica: nel Finale I, così, al posto del calare della tela sul tableau vivant, si ha un’indistinta, unitaria, insensata processione dietro le quinte di personaggi al contrario trasportati da affetti contrastanti, seguìti a gregge dalla massa corale. Maluccio.
Va assai meglio sul versante musicale, a partire da una locandina ben assortita tra chi conosce Ernani come le proprie tasche e chi può dargli un contributo nuovo e di pregio. Dopo mezzo secolo di esperta militanza verdiana, James Conlon è anzi al debutto in quest’opera, e dà chiaro conto di come i chiamati a dirigerla siano più spesso dei confortevoli battisolfa che dei concertatori maiuscoli. Quanto a lui, è un fuoriclasse che obbedisce ai dettami verdiani di «molto fuoco, azione moltissima e brevità» con tempi incalzanti, esecuzione integrale, pigrizia vietata. Più nel dettaglio, con due esempi: restituisce preziosismi di strumentazione con nitida intelligibilità ma senza cadere in calligrafismi compiaciuti, e quando increspa il gioco agogico davvero conduce la narrazione, genera l’atmosfera, illustra il senso teatrale della frase musicale; proibisce ai cantanti, poi, la censurabile abitudine di tacere per lunghe battute onde preparare la truffa del breve acuto interpolato: li invita invece a fraseggiare ovunque di fino, educando all’attenzione non momentanea ma permanente. È un privilegio ascoltare il Verdi trentenne da un’orchestra di grossa cilindrata come quella del MMF – con un bemolle: maldestra la collocazione della banda di palcoscenico nella buca anziché dietro le quinte – e lo è altrettanto ritrovare i colori del relativo coro, il medesimo assurdamente escluso dalla recente Alcina.
La disciplina di Conlon giova alla resa dei protagonisti vocali. Francesco Meli, nella parte eponima che è sua feticcia, supera di gran lunga la prova data nel giugno scorso, con un altro direttore, al Teatro dell’Opera di Roma: ritrova facilità ed esattezza, cerca senza posa la sfumatura nel piano e nel pianissimo, a costo di sfidare le proprie disponibilità tecniche, vanta infine un accento sempre fervido. Duole che non si affranchi da certi vecchi difetti, resi per paradosso evidenti da mezzi così fragranti: si allude alle note che sul passaggio di registro, e oltre, tendono ad arretrare in gola anziché risuonare libere, o a quelle staccate senza garbo, di botto, con violenza, così da ostentare uno sforzo fisico forse nemmeno sussistente. María José Siri, Elvira, supera a sua volta la sé stessa delle ultime apparizioni verdiane a Firenze, come Lucrezia Contarini nei Due Foscari e come Leonora nel Trovatore: timbra nobilmente in maschera, guadagnando armonici, malìa e risonanza; tiene legati i registri, con smalto, a dispetto della scabrosa scrittura di sbalzo; onora l’appuntamento col lirismo estatico nonché quello con l’impeto animoso; conferma la sua miglior attitudine nel Verdi più maturo – indicativamente quello dal Ballo in maschera in avanti – e da lì nel Verismo e nel Novecento storico italiano, ma mostra anche una lodevole e crescente confidenza con quei passaggi d’agilità per lei mai stati troppo agevoli. Non va persa l’occasione, poi, di ascoltare Roberto Frontali nella parte, da lui poco frequentata, di Don Carlo: una parte che però lo affatica con una tessitura qui e là troppo acuta per i suoi generosi sessantaquattro anni – pericolosa è in particolare la cabaletta «Vieni meco, sol di rose», scritta quasi tutta sopra il rigo nonché da sussurrare a mezza voce – e che vede predisposta una linea baritonale da grand seigneur anziché da vilain, cui invece l’interprete si accoda per via del porgere brusco, del timbro pulviscoloso e della ruvida emissione. Banalmente torvo e rozzo, va da sé, anziché ben caratterizzato, Frontali non saprebbe esserlo, mentre lo risulta suo malgrado, con vocione grosso e modi orcheschi, un basso wagneriano di razza quale Vitalij Kowaljov. L’errore è non tanto suo, per aver accettato di sostenere la granitica parte di Don Ruy Gomez de Silva, quanto del responsabile di casting, forse arrivato tardi per scritturare un Michele Pertusi e illusosi di risolvere l’aristocratico personaggio con un digrignante Hunding. Che pasticcio, il caso Silva! Anche perché Conlon sceglie di decorare la parte con la cabaletta facoltativa, «Infin che un brando vindice», ma taglia poi in essa il tramezzo e la ripresa, rovinandone la struttura. Commette così l’unico peccato mortale nell’eccellente sua concertazione. Temeva verosimilmente di paralizzare l’azione, per un altro minuto, nel bel mezzo di un quadro d’assieme: ma mai scrupolo avrebbe potuto essere meno urgente, nel contesto di una regìa di per sé amica dell’immobilità.