L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Una Bohème sopra le righe

di Irina Sorokina

Non convince purtroppo, l'attesa Bohème di San Silvestro al Filarmonico, in cui anche gli elementi sulla carta più interessanti finiscono per deludere.

Leggi anche: Verona, La bohème, 11/12/2022

Verona,  31 dicembre 2022 - Addio, l’anno duemilaventidue, decisamente difficile e drammatico, segnato dalla guerra nel cuore dell’Europa, non tanto lontano da noi. C’è sempre il desiderio di farci passare l’ansia, di percepire qualche buona notizia o almeno avere una luce flebile di speranza. La musica è una grande terapeuta e il tradizionale concerto di Capodanno al Teatro Filarmonico di Verona è in un certo senso la dolce medicina.

I veronesi sono abituati a questo evento ormai, all’ascolto di una parata di arie e duetti celebri, della tradizionale marcia di Radetzky che un pochino rendeva Verona parente di Vienna. Dopo l’espressione unanime d’entusiasmo tramite i battiti delle mani al tempo di musica, si faceva un brindisi col prosecco e si gustava un pezzo di pandoro. Sarebbe dovuto andare così, ma dopo “un balletto” di aggiornamenti da parte del gentilissimo staff dell’ufficio stampa areniano, si è appreso che la sera di Capodanno sarebbe andata in scena La bohème pucciniana vista e ascoltata dal pubblico una decina di giorni prima. È stato annunciato  un cast stellare (a nostro parere, definizione esagerata) con la coppia Roberto Alagna-Aleksandra Kurzak, ma alla fine Rodolfo e Mimì sono stati interpretati da Johnatan Tetelman e Irina Lungu, mentre il resto del cast è rimasto immutato ad esclusione di Daria Rybak, Musetta.

Ben venga La bohème del Capodanno, la cosiddetta “opera facile”, secondo le parole di Arturo Toscanini, scritta così bene, i personaggi scolpiti in modo così veritiero e coinvolgente. Trovare un cattivo Rodolfo? Poco probabile. Trovare una cattiva Mimì? Pressappoco impossibile.

L’ultimo allestimento della Fondazione Arena ha destato parecchi dubbi e giudizi non del tutto favorevoli: la scelta di Stefano Trespidi di ambientare la storia semplice di sei giovani squattrinati in una Parigi delle proteste del 1968 è risultata arbitraria e ha presentato parecchie incongruenze. Una stamperia con tanta gente dentro al posto dell’umile mansarda nel primo quadro dove agiscono solo cinque personaggi, la rivolta dei giovani soppressa ai colpi di manganelli nel secondo, l’università occupata di Nanterre al posto della barriera d’Enfer nel terzo (col rischio di scivolare nel ridicolo), una sontuosa casa borghese nel quarto con la presenza di una escort nuda nella vasca – non c’era dubbio che il riscaldamento funzionasse, allora perché Mimì aveva tanto freddo? OK, abbiamo visto cose peggiori e decisamente più volgari: basta ricordare Salomè ambientata in discarica dal regista Stefan Herheim, prodotta dal Salzburger Festspiele nell’ormai lontano 2011. All’epoca Il Corriere della sera pubblicò un articolo del sociologo Domenico De Masi che si pose la domanda: quale posto occupa l’arte della società postindustriale? Citando Piero Adorno, De Masi sostenne che l’arte non punta più alla bellezza, ma alla originalità, mettendo in centro dell’attenzione i concetti di mélange, pastiche, patchwork, riciclaggio, trash. Il suo pensiero non riguardava le arti sceniche, ma funzionava perfettamente anche quando si trattava di alcuni esempi di teatro di regia moderno. Per fortuna, se confrontata con gli esperimenti di Herheim come Les Contes d’Hoffmann al Bregenzer Festspiele, 2015, con un uomo gigantesco e rozzo vestito da donna nel ruolo di Stella e gli studenti che praticavano sodomia con Luther, e la stessa opera messa in scena dal regista svizzero Christoph Malthaler al Teatro Real di Madrid nel 2015 e approdata al Teatro dell’Opera di Stoccarda un anno dopo, con ben quattro ragazze nude nel prologo, La bohème veronese è roba da bambini, ha presentato “soltanto” molte incongruenze e impiegato solo una donna nuda all’apertura dell’ultimo quadro. Per diventare un vero trash si sarebbe voluto ben altro!

Aspettavamo trarre un piacere dall’interpretazione del tenore americano nato sul suolo cileno Johnatan Tetelman, ascoltato nella stessa parte esattamente quattro anni al Komische Oper, Berlin (Berlino, La bohème, 27/01/2019). Purtroppo, proprio la sua presenza nella rappresentazione veronese di fine anno ha destato dei grandi dubbi che quasi da subito sono degenerati nel dispiacere. Possiede una voce bellissima, il giovane tenore che sta costruendo la sua carriera sui ruoli del Duca di Mantova, Alfredo, Rodolfo, Cavaradossi, Pinkerton, Werther e recentemente ha interpretato Loris Ipanov in Fedora, e possiede la bellezza che sicuramente lo agevola e contribuisce non poco al suo successo. Possiede pure le doti d’attore e d’interprete, eppure nella recita veronese la sua prestazione vocale è stata deludente e preoccupante. Un Rodolfo ideale, per il fisico, per l’impeto, per la sincerità, e anche per la bellezza del timbro e per il fraseggio ben elaborato. In “Che gelida manina” ha rivelato una buona linea, un buon legato, chiaroscuri ben pensati. Ma si è sfiorato un dramma quando il bel tenore doveva salire al registro acuto: i muri del Filarmonico, che accoglievano un pubblico abbastanza numeroso, hanno sentito qualcosa che si sarebbe detto con certezza un urlo simile allo sparo di un fucile. In “Dal mio cervello” all’inizio del secondo quadro ha sfiorato il limite ddi un altro urlo molto sgradevole. Peccato davvero, viste tutte le carte in regola che ha Tetelman per diventare certamente non “un quarto tenore”, ma un artista importante capace di creare dei personaggi credibili e affascinanti e donare dei momenti del delirio felice grazie alla bella voce. Nel terzo e quattro quadro è andato meglio, lo si è riconosciuto con un sospiro di sollievo.

Accanto a Tetelman Irina Lungu, un’artista di tutto il rispetto in possesso di un repertorio vasto e di una grande esperienza, ha deluso in parte anche lei. In “Mi chiamano Mimì” e per tutta la durata della recita la voce è risultata sbiadita, senza lo smalto, l’emissione piuttosto dura e senza la cura dovuta; con rammarico, si può parlare di una certa rozzezza. Come per Tetelman, anche la sua interpretazione è migliorata nel corso della recita.

Sicura di sé e carina è stata Daria Rybak nei panni di Musetta e gli altri abitanti della mansarda, pardon, della bella casa con una strepitosa veduta sulla tour Eiffel, hanno conquistato a pieno merito la simpatia del pubblico, giovani, spigliati, espressivi: Alessandro Luongo – Marcello, Jan Antem – Schaunard, Francesco Leone – Colline. I primi due hanno peccato un po’ di esagerazione nel canto e nella recitazione, ma anche esagerando hanno emanato una simpatia irresistibile. L’ultimo dei “quattro moschettieri”, Colline con il volto e la voce di Francesco Leone, che ha felicemente evitato troppa spavalderia e confermato il proprio successo in “Vecchia zimarra”.

Un’interpretazione esilarante, un piccolo capolavoro ha fornito Nicolò Donini come Benoit e ben preparati e sicuri si sono rivelati Roberto Accurso – Alcindoro, Antonio Garés – Parpignol, Jacopo Bianchini – sergente dei doganieri, Francesco Azzolini – doganiere, Giovanni Gregnanin – un venditore.

Sul podio Andrea Battistoni, spesso in piena sintonia con il tenore portato ad esagerare, ha diretto l’orchestra della Fondazione Arena in modo generico, dando preferenza alle velocità e al volume che non appartengono proprio a un’opera intima e profonda come La bohème. La sua direzione della recita annunciata come straordinaria si è ridotta a due caratteristiche, entrambi dolenti: forte e veloce.

Buone parole ai due cori, quei dell’Arena e di Voci Bianche A.LI.VE rispettivamente diretti da Ulisse Trabacchin e Paolo Facincani.

Il pubblico della notte di San Silvestro è stato generoso e all’uscita degli artisti ha premiato tutti con applausi.


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