La virtù del pasticcio
Il Tamerlano (o Il Bajazet) è un pasticcio approntato da Vivaldi per Verona nel 1735. L'accezione moderna del termine non tragga in inganno nel suggerire una visione riduttiva di una prassi barocca consolidata. Si ammira, viceversa la maestria nel gestire equilibri e logiche teatrali e musicali ricorrendo a materiali di diversa origine. Sotto la direzione di Ottavio Dantone a Piacenza si fa valere un buon cast di specialisti.
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PIACENZA, 22 gennaio 2023 - In certi casi la definizione “teatro di tradizione” è da intendersi letteralmente: il Municipale di Piacenza, quando si affronta lo zoccolo duro del repertorio, ama rassicurare il suo pubblico con allestimenti non esattamente audaci. Però, per fortuna, c'è il rovescio della medaglia e non si osano solo titoli popolari e ponderosi, ma anche incursioni più antiche e moderne: quest'anno, con ben tre Verdi e una Fedora, ecco infatti che spuntano il barocco del Tamerlano, il primo Novecento di Pelléas et Mélisande e, fra concerti ed eventi collaterali, varie pagine contemporanee.
L'anno di apre proprio con Il Tamerlano, che per comodità si attribuisce in locandina a Vivaldi, ma per il quale val la pena ricordare (come fa il programma di sala) che si tratta di un pasticcio e che il Prete Rosso fu il demiurgo dell'operazione e l'autore di buona parte delle arie – quelle, soprattutto, dei personaggi positivi. Il concetto di originalità come di paternità dell'opera è lontano dagli orizzonti di questo repertorio, è una concezione relativamente moderna che non dobbiamo commettere l'errore di applicare a tutta la musica del passato. Piuttosto, andrebbe riportata alla ribalta l'idea che il barocco non è il regno della libertà assoluta, ma che possiede suoi propri codici ed equilibri nei quali muoversi con consapevolezza. Per esempio, quando si legge nelle note di regia di Stefano Monti di una presunta “confusione sessuale” si potrebbe trasalire: nessuna “confusione” se non nell'ottica di una visione post ottocentesca; invece, semplicemente, i rapporti fra registri vocali, età, ruolo e genere del personaggio e dell'interprete sono, al tempo di Vivaldi, regolati da logiche e sensibilità differenti. Per fortuna, però, poi la questione resta sulla carta e sulla scena lo spettacolo si sviluppa in modo assai sobrio, puntando piuttosto su un'estetica che pesca nelle tendenze postapocalittiche, distopiche, vagamente fantasy e fantascientifiche in voga. Tuttavia, resta l'impressione di una concezione che, pur nel coinvolgimento di diversi ambiti artistici (video di Cristina Ducci, sculture di Vincenzo Balena, pitture su tela di Rinaldo Rinaldi e Maria Grazia Cervetti) non si libera da un certo schematismo; Monti, in collaborazione con Dacru Dance Company e i coreografi Marisa Ragazzo e Omid Ighani imbastisce un'azione costantemente animata da doppi danzanti dei personaggi. Davide Angelozzi, Sara Ariotti, Elda Bartolacci, Graziana Marzia, Kyda Pozza e Alessandra Ruggeri sono davvero bravi tecnicamente, impegnatissimi. L'espediente collaudato non aggiunge granché alla comodità di non dover far recitare troppo i cantanti sotto maschere, elmi e pesanti trucchi.
Chi vuole e può, tuttavia, recita eccome. Bruno Taddia nei panni di Bajazet (a proposito, nel corso dei tre atti l'abbiamo sentito pronunciato dai diversi interlocutori con la J sia come I semivocalica sia alla francese: la prima sarebbe l'opzione preferibile) accenta con vivida intenzione, non teme di mostrare la furia del sovrano prigioniero, rabbioso nel suo orgoglio ferito, fiero e ferino, morde con autorevolezza recitativi e arie, in particolare la nota “Dov'è mia figlia” presa dal Motezuma vivaldiano. Nondimeno, Filippo Mineccia coglie l'alterigia di Tamerlano come emblema del tiranno che dalla tracotanza si corregge nella virtù, troppo spesso ridotto all'isteria grottesca ricalcata sul – magistrale, nel contesto – Nerone di Peter Ustinov. Ecco invece il condottiero audace, il monarca assoluto che abusa del proprio potere convinto di disporre della vita e dei sentimenti altrui senza alcuna legge morale e, in questo, a suo modo coerente. La sfida fra i due contendenti pone in dubbio l'esistenza di un'autentica distanza etica fra la dinastia reale ottomana e il pastore mongolo creatore di un impero. L'oscillazione storica del titolo fra i due sovrani appare viepiù giustificata.
Il sopranista Federico Florio ha voce facile e limpida e si adatta benissimo al nobile e amoroso Andronico, affrontando con disinvoltura canto virtuosistico e patetico; Giuseppina Bridelli conferma la sua padronanza dello stile con voce sempre duttile e timbrata nella parte drammaturgicamente marginale ma musicalmente insidiosa di Idaspe. A Shakèd Bar, Irene, spetta l'impegno forse maggiore, farinelliano, fra la pirotecnica “Qual guerriero in campo armato” di Broschi e la celeberrima “Sposa son disprezzata” di Giacomelli: sciolta la tensione dell'appuntamento con la prima aria, si procede in crescendo fino alle morbide fioriture della bucolica “Son tortorella”. Infine, Asteria è appannaggio di Delphine Galou, che si annuncia indisposta senza che la cosa penalizzi in modo significativo la sua abituale resa vocale; la partecipazione scenica è sempre vibrante.
Ottavio Dantone concerta forte della qualità e dell'affiatamento dell'Accademia Bizantina, sempre morbida, precisa, ben amalgamata e levigata nei colori e nelle dinamiche, con una definizione ritmica e metrica ora sfumata, ora (negli slanci di Bajazet e Tamerlano) marcatissima. Si rendono evidenti sia l'origine eterogenea delle arie, sia il minuzioso lavoro di selezione, adattamento, ricollocamento e accostamento operato da Vivaldi. Tutto fila vario e coerente e il pubblico – non certo sparuto – festeggia con applausi ripetuti e ripagati dal gioioso bis del finale “Coronata di gigli e di rose”