Diabolico Berlioz
di Luigi Raso
La damnation de Faust al Teatro Politeama fa risplendere le prove dei complessi del Teatro di San Carlo e una locandina di tutto rispetto, con uno straordinario Ildar Abdrazakov in vesti demoniache affiancato da John Osborn e Daniela Barcellona con al direzione di Pinchas Steinberg.
NAPOLI, 7 febbraio 2023 - Dei tre titoli operistici programmati dalla Fondazione Teatro di San Carlo al Politeama Giacosa di Napoli durante i tre mesi di lavori di restauro della storica sala di Antonio Niccolini, La damnation de Faust è l’unico originariamente non destinato alle scene: la légende dramatique (la definizione è dello stesso Hector Berlioz, coautore insieme a Almire Gandonnière e Gérard de Nerval del anche del libretto) appare infatti quale “opera da concerto”. E proprio in questa forma vide la luce all’Opéra-Comique il 6 dicembre 1846; soltanto nel 1893 fu rappresentata al Théâtre du Casino di Montecarlo in forma scenica.
Dopo la teatralità bruciante e il trionfo di Rigoletto (qui la recensione) va in scena, con cast parzialmente mutato rispetto a quello annunciato, quel ciclo di affreschi musicali che è La damnation de Faust.
Composizione imperniata sui colori e sul virtuosismo orchestrale come poche dell’800 musicale (Hector Berlioz è autore del Grande trattato di strumentazione e di orchestrazione, del 1844) ha trovato nell’Orchestra del Teatro San Carlo una compagine smagliante, capace di evocare con il suo suono i molteplici colori di cui è intrisa la complessa partitura. L’orchestra si presenta ottimamente amalgamata in tutte le sezioni: scintillante l’indaffaratissimo reparto dei legni, sontuoso e possente il suono degli ottoni, precise le percussioni, solidi e avvolgenti gli archi, evocative di metafisiche beatitudini le due arpe nel finale. Ottimi, giusto per citare due esempi, la prima viola di Leonardo Li Vecchi che duetta con la Marguerite di Daniela Barcellona nella chanson gothique (“Autrefois un roi de Thulé”), così come il melanconico corno inglese di Marta Hernandez Santos che introduce e accompagna la romanza sempre di Marguerite “D’amour l’ardente flamme”.
Su questo eccellente materiale sonoro la direzione di Pinchas Steinberg ha gioco facile nel foggiare variegate atmosfere dai tableaux che compongono le quattro parti della “leggenda drammatica”, così ben rese che si sorvola su qualche momentaneo e circoscritto sbandamento e incomprensione con l’orchestra e i cantanti.
L’indubbia suggestione della scrittura strumentale, brillante e a volte tronfia, di Berlioz induce talora Pinchas Steinberg a calcare la mano sull’acceleratore delle dinamiche, penalizzando a volte l’equilibrio tra orchestra e uno dei solisti di canto. Ma nel complesso la sua lettura è convincente e procede con tempi sempre coerenti con la non debordante azione drammatica che si snoda attraverso la composizione.
Protagonista della leggenda drammatica - al pari, se non in misura maggiore rispetto ai solisti - è senza dubbio il Coro: a lui Berlioz assegna il ruolo di commentare l’azione, di far da quinta sonora ai solisti, di creare per ciascuna tavola del polittico musicale il colore che ammanta e s’intreccia con il canto. Senza un’eccellente prova del Coro, insomma, La damnation de Faust sarebbe un edificio senza pilastri.
Stasera il Coro, guidato da José Luis Basso, si è dimostrato all’altezza della impervia, varia e complessa scrittura vocale; ma, soprattutto, sin dal suo apparire nelle vesti di festanti contadini ha dimostrato di saper cambiare repentinamente i panni che gli assegna Berlioz nell’evolversi della fabula, declinando appropriatamente su quest’ultima l’intensità e gli accenti del suo canto.
Quella di Berlioz è una scrittura corale estremamente complessa, che nel suo spettro racchiude il sommesso e quasi diafano canto religioso così come quello popolaresco, canzonatorio, demoniaco. Si ritrovano nella prova del Coro del San Carlo tutti gli stati d’animo e le atmosfere pretese da Berlioz, mettendo a segno ancora una volta una delle sue prove più convincenti.
Dal protagonista corale ai solisti il passo è breve, data la stretta ed intima commistione delle componenti vocali nella Damnation.
Il Faust di John Osborn, che sostituisce lo scritturato Charles Castronuovo, si segnala per la signorilità della linea di canto, per il fraseggiare con gusto e intelligenza del tenore statunitense, per l’uso ammirevole di mezzevoci, alcune delle quali in falsetto.
Quello di Osborn è un canto a fior di labbro, cesellato, raffinato, una lezione di stile e tecnica; eppure la sua è una prestazione in crescendo. Nelle prime due parti di cui si compone la Damnation il volume della sua voce appare troppo esiguo, la proiezione non adeguatamente sostenuta in profondità, il timbro non molto squillante; ma dalla terza parte (da “Merci, doux crépuscule! Oh! sois le bienvenu!”) la voce riacquista i suoi spazi e la sue risonanze; l’eleganza della linea di canto e la raffigurazione di un Faust elegiaco sono le cifre distintive e costanti di un’interpretazione da ricordare.
Daniela Barcellona ha sostituito a sua volta con breve preavviso la prevista Anita Rachvelishvili nella parte di Marguerite. Il mezzosoprano triestino farcisce la linea di canto - che purtroppo non sempre procede fluida, denotando qualche appesantimento nell’emissione e qualche suono sforzato in alto di troppo - con una lodevole intensità drammatica, che contribuisce a rendere, in aggiunta al timbro brunito e all’ampiezza e alla proiezione, carnale la figura di Marguerite.
Dopo il forfait dello scorso aprile - avrebbe dovuto rivestire i panni di Scarpia in Tosca diretta da Juraj Valčuha, con Jonas Kaufmann e Oksana Dyka - Ildar Abdrazakov era attesissimo in questa produzione: e la sua prova è del tutto all’altezza delle aspettative.
La parte di Méphistophélès è adatta e comoda per la sua tessitura di basso-cantante e soprattutto, per l’intelligenza dell’interprete. Abdrazakov è tra quegli artisti che sanno far cominciare il canto già dall’articolazione della singola parola, dalla ricerca del colore e dell’inflessione per ciascuna espressione: se poi a tanto si aggiungono mezzi vocali ragguardevoli, ottima tecnica, tendenza a sfumare, fraseggio articolato, presenza scenica, doti d’attore ne esce un’interpretazione interessante e di assoluto pregio.
Il basso russo infatti domina letteralmente la parte, scolpisce e cesella le frasi musicali dando vita a un demonioelegante, insinuante, soggiogante. Quello di Abdrazakov è un Méphistophélès monumentale, che impressiona e seduce sin dal suo apparire in scena, quasi come il recente Boris Godunov al Teatro alla Scala [Milano, Boris Godunov, 07/12/2022].
Fa molto bene il basso-baritono Louis Morvan, con il suo timbro squillante e l’adeguato controllo e sostegno della linea di canto, nella breve parte di Brander.
Da lodare anche gli interventi della Voce celeste di Laura Ulloa, promettente allieva dell’Accademia del Teatro di San Carlo.
Al termine, il successo decretato dal pubblico non folto come la produzione avrebbe meritato non è tanto caloroso da contrastare il gelo atmosferico che Nikola ha piantato su Napoli in questi giorni: applausi per tutti i protagonisti e artefici di questa, nel complesso, eccellente produzione.