Anna nella tempesta
di Luigi Raso
Le acque agitate in cui naviga il Teatro di San Carlo influiscono sugli esiti del capolavoro donizettiano, che pure presenta più d'un motivo di soddisfazione.
NAPOLI, 8 giugno 2023 - Anna Bolena è andata in scena al Teatro San Carlo. E questa, durante uno dei periodi più turbolenti della recente vita amministrativa del Teatro San Carlo, è di per sé notizia degna di nota.
Sul ritorno al Massimo partenopeo - ultima edizione nel maggio del 2000 - di Anna Bolena incombeva il rischio della cancellazione a seguito della proclamata agitazione dei lavoratori del Teatro che ha determinato nei giorni scorsi l'annullamento dell’opera Don Chisciotte di Paisiello, l’esecuzione di un concerto lirico senza orchestra (qui la recensione) e di un altro senza il coro. Tensioni e incertezze derivanti da un corto circuito di rivendicazioni sindacali innescato, a sua volta, dall’anticipato (e forzoso) pensionamento del sovrintendente Stéphane Lissner deciso da un Decreto legge, ad oggi però ancora non convertito in Legge. La tensione dei giorni precedenti sembra aleggiare sulla riuscita di questa tanto attesa produzione di Bolena.
Lo spettacolo, coproduzione tra Teatro di San Carlo, Dutch National Opera, Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia, è affidato alla regista olandese Jetske Mijnssen, la quale, nel solco della drammaturgia del libretto di Felice Romani e della musica di Gaetano Donizetti, punta ad far emergere la psicologia dei personaggi, mostrarne i dissidi interiori, le loro fragilità. E ciò è realizzato perché la regista può disporre di un cast di cantanti, soprattutto per il versante femminile (includendo anche Smeton, ruolo en travesti), di cantanti-attrici in perfetta sintonia con la visione registica.
L’impianto scenico disegnato da Ben Baur, dai chiari riferimenti cinquecenteschi, claustrofobico e oscuro sa ben rendere il senso di oppressione e colpa che incombe sul dramma: appaiono e scompaiono sulla quinta scenica scorrevole porte, sliding doors che probabilmente alludono agli imprevedibili e repentini cambiamenti delle vite dei protagonisti. In questo spazio, ristretto e con il mobilio ridotto all’essenziale, la mano della regista Jetske Mijnssen sembra eclissarsi: lo scavo nella psicologia dei personaggi è affidato sia alla recitazione curata, ma senza trovate originali, sia, soprattutto, all’interazione fisica tra i cantanti: da questa emergono l’amore, l’odio, il senso di colpa, la crudeltà che popolano il dramma donizettiano.
La regista, coadiuvata dal drammaturgo Luc Joosten, aggiunge qualche licenza (e incongruenza) registica: la presenza in scena di una bambina, la futura regina Elisabetta I d’Inghilterra (che all’epoca della decapitazione della madre, 1536, aveva soltanto tre anni), che si aggira per le stanze della corte, senza una chiara finalità teatrale; non sarà il ritratto di Bolena posseduto da Smeton ad incastrare, agli occhi di Enrico, la regina, bensì una bambola, altro oggetto feticcio sovrarappresentato in questa messinscena; e poi, un momento pulp quando Enrico strappa il cuore da un grande cervo e lo offre a Bolena: un formale atto di devozione e un preannuncio di morte.
La greve atmosfera tudoriana è rimarcata dai bellissimi costumi di Klaus Bruns, ben valorizzati dalle luci curate da Cor van der Brink, e dagli interventi coreografici di Lillian Stillwell, la cui presenza, a parere di chi scrive, nel tragico finale è stridente con l’esito del dramma e con le originarie premesse registiche.
Il versante musicale, come si è accennato, appare risentire della tensione che ha vissuto il Teatro: nel complesso l’orchestra assolve egregiamente al suo dovere, ma non è in una delle sue consuete brillanti serate alle quali ha abituato il pubblico. Sebbene il suono sia ben curato, la tenuta generale tendenzialmente buona, si percepisce la non perfetta messa a fuoco di qualche ingranaggio orchestrale e poco trasporto.
Considerazioni, queste, da estendere anche al Coro del San Carlo guidato da José Luis Basso, quasi al termine, purtroppo, del suo incarico a Napoli: fa bene, ma gli esiti elevatissimi delle ultime prove (ultimo, in ordine di tempo, Macbeth dello scorso mese di marzo; qui la recensione) hanno abituato il pubblico ad adeguate pretese artistiche. In Anna Bolena, il Coro ha dato il “colore” al dramma, ma è mancato il coinvolgimento e la perfetta messa a fuoco dell’insieme.
La responsabilità musicale dello spettacolo è affidata a Riccardo Frizza, che - da interprete attento a Donizetti, ricoprendo la carica di direttore musicale del festival di Bergamo - ha il merito di proporre la versione integrale di Anna Bolena: pochissime le battute espunte dalla partitura. Questa produzione costituisce dunque l’occasione per ascoltare Bolena nella sua completezza, come raramente avviene.
Frizza assicura allo spettacolo - della durata, compreso un intervallo e i brevi cambi di scena, vicina alle quattro ore - buona tenuta drammatica; dà sostegno al canto, assicura equilibro tra voci, orchestra e coro; di Bolena Frizza ha una visione libera da enfasi musicali non donizettiane: il direttore individua in Donizetti il ponte musicale tra Rossini e Verdi, rimarcando la sua specifica individualità. Al netto di qualche ispessimento sonoro nei concertati, la conduzione procede piuttosto fluidamente, attento alle esigenze del canto.
Opera cult per i vociomani (absit iniuria verbis!: il mondo dell’opera abbonda di persone permalose, è noto!) Anna Bolena è soprattutto opera di e per grandi voci: nel 1830 al Teatro Carcano a Milano i creatori delle parti furono Giuditta Pasta, Filippo Galli, Giovanni Battista Rubini, Elisa Orlandi.
Stasera il cast, in rigoroso ordine di locandina, schiera Alexander Vinogradov come Enrico VIII. Voce imponente ma non grandissima, emissione spesso forzata, pronuncia italiana da migliorare, Vinogradov delinea un Enrico VIII crudele ma ben poco aristocratico nella linea di canto.
La protagonista è l’attesissima Maria Agresta, soprano che ha già affrontato la temibile parte di Bolena. Le sue caratteristiche e l’organizzazione vocale sono tali da far brillare e apprezzare le sezioni più liriche; ma quando la scrittura chiede drammaticità, peso, colorature nitide e veementi si avverte la sensazione di quanto la parte sia troppo ardua per la vocalità della Agresta. Ha però il merito di delineare una Bolena dolente, sfumata (molto intense le smorzature degli acuti), dal fraseggio analitico, così come la recitazione teatrale. Specchio ed epitome di queste caratteristiche vocali e interpretative è l’intenso “Al dolce guidami”, cesellato, sfumato e ben legato; la successiva cabaletta, “Coppia iniqua” è però carente, per le caratteristiche della vocalità della Agresta, della necessaria incisività.
A suo agio nelle vesti di Giovanna Seymour è il mezzosoprano Annalisa Stroppa che domina la scrittura vocale con sicurezza, forte di timbro dal bel colore, registro medio corposo e sicuro quello acuto. L’articolazione della sua linea di canto trova nella parola (perfetta la dizione, il peso dato alle singole parole e agli accenti drammatici nei recitativi) il proprio elemento generatore: da essa origina una linea di canto sicura, stilisticamente conforme all’estetica belcantistica donizettiana, dal fraseggio screziato e all’occorrenza incisivo. Tra i vari momenti di una eccellente interpretazione, si ricordano gli intesi duetti/scontri con Enrico VIII e Bolena e l’articolata Scena e Aria “Per questa fiamma indomita” eseguita con stile ineccepibile, e con sincera e intensa partecipazione emotiva.
A interpretare - e integralmente! - la parte di Lord Riccardo Percy creata da Rubini stasera c’è René Barbera: gli si riconosce di aver risolto egregiamente le colorature, di aver dato, soprattutto nel registro centrale e acuto, incisività alla linea di canto; un maggior coinvolgimento (ma c’è da tener presente che Barbera è stato chiamato a sostituire con preavviso di pochissimi giorni il collega originariamente scritturato) avrebbe giovato alla propria interpretazione.
Nicolò Donini nei panni di Lord Rochefort, fratello di Anna Bolena, sconta spesso volume vocale esiguo.
Da ricordare l’eccellente prova di Caterina Piva come Smeton: voce ben timbrata, ampia, ricca di armonici, buona organizzazione vocale, disegna un paggio attraversato da fremiti amorosi di spiccata plasticità.
Chiude il cast Giorgi Guliashvili, allievo Accademia Teatro di San Carlo, nella piccola parte di Hervey.
Al termine, la lunga durata dello spettacolo fiocca l’entusiasmo del pubblico che applaude lungamente tutti gli artefici dello spettacolo.
Nota a margine: prima di guadagnare l’uscita, si lancia uno sguardo al palco di barcaccia di prima fila che per sedici anni fu di Donizetti; un altro sguardo a quello, sovrastante, di seconda fila che fu di Rossini. E in un attimo la storia del San Carlo ci ricorda di trovarci in un teatro “consacrato” al belcanto, da amare, custodire e rispettare.