In fuga verso l'arcobaleno
di Andrea R. G. Pedrotti
Davvero infelice la visione teatrale proposta da Francesco Micheli per Roméo et Juliette, tuttavia Verona è propizia agli amanti che, con la loro tragedia, ne son divenuti simbolo. Lana Kos e Vittorio Grigolo costituiscono una coppia perfettamente assortita e, con la loro prestazione maiuscola, celebrano infine il trionfo del loro amore contrastato, siglando un epilogo nel quale è difficile trattenere le lacrime.
VERONA, 6 settembre 2014 - Verona ritrova la sua Giulietta, riproponendo per il terzo anno consecutivo la produzione, a firma di Francesco Micheli, di Roméo et Juliette di Charles Gounod. Il capolavoro del compositore francese ben si adatta all'anfiteatro scaligero, offrendo al pubblico la lieta simbiosi dei due simboli di Verona. Per una volta l'atmosfera non ci ha accolti fra le poltrone e le gradinate dell'Arena, ma già all'ingresso in città, quando l'umidità antelucana ha fatto variopinta mostra di sé tingendosi dei colori dell'iride. Romeo e Giulietta parevano dare il proprio benvenuto in quella che loro stessi, divenendone immortali simboli, hanno contribuito a battezzare “città degli innamorati", grazie alle loro sventure di passione e morte.
Ovunque sarebbe stata sciagura, per la giovane Capuleti, la messa in scena di Francesco Micheli, ma Verona troppo ha fatto patire gli amanti e rivali e ora essi trionfano, più sfavillanti che mai, fra gli antichi archi dell'Arena. La regia sarebbe da considerarsi pienamente censurabile dal principio al termine dell'opera, quando lascia spazio all'emozione degli ultimissimi istanti: le scene sono brutte e rumorose, nessuno dei personaggi è adeguatamente caratterizzato, i muovimenti appaiono grotteschi al limite della farsa. Nulla convince del lavoro del regista; Capuleti e Montecchi non hanno alcuna differenziazione fra loro, tranne alcune casuali luci gialle e blu, in ossequio al confalone cittadino. L'intero impianto scenico, circondato da due grandi scritte, recanti i nomi delle due famiglie rivali, si avvale di un gioco di rampe e gradini, certo, in ossequio a Cangrande della Scala, ma assolutamente insensato e pretestuoso nell'opera di Gounod.
Per fortuna c'erano loro: Roméo e Juliette. Vittorio Grigolo sta rapidamente raggiungendo la piena consacrazione e maturità: la voce è assai ampia, ma ben misurata e controllata, l'emissione sicura e mai forzata. Non eccede mai nell'atteggiamento guascone degli anni passati e delinea un Roméo ideale per accenti e fraseggio: la cavatina “Ah, lève-toi, soleil!” è intepretata con passione e notevole espressione, ogni pianissimo è udibile alla perfezione, anche se il finale dell'aria viene rovinato dall'ennesima pretestuosa trovata registica con il lancio in volo di due colombe mentre Grigolo attaccava l'ultimo pianissimo. Logicamente un'azione del genere, se proprio necessaria, si sarebbe dovuta svolgere con una tempistica più appropriata, attendendo il termine dell'esibizione canora, che, in questo modo, non sarebbe stata coperta da un inevitabile applauso a scena aperta.
La pur giovane Lana Kos dimostra la maturità della grande interprete: esegue più che correttamente “Je veux vivre dans ce reve”, nonostante fosse avvinta da una fastidiosa imbracatura a impedirne la piena libertà di muovimento, ma il momento più alto della serata, per quanto riguarda la sua prova solistica, è la meravigliosa aria del IV atto “Amour, ranime mon courage”, interpretata dal soprano con intensità lirica coinvolgente e con un registro centrale perfettamente proiettato negli ampi spazi che le stavano innanzi. Le controscene dell'inutile presenza del corpo di ballo alle sue spalle farebbe apparire il cimento del trasmettere il pathos di uno dei momenti più drammatici dell'opera una lotta contro i mulini a vento, ma Verona è in debito con Giulietta e nulla può vincere l'impeto della sua tragica passione.
Lana Kos e Vittorio Grigolo si ritrovano uniti nel meraviglioso finale (ben più drammaturgicamente coinvolgente dell'ottimanente eseguito duetto “Va! Je t'ai pardonné “). Qui prosegue il gioco di scale voluto da Micheli, atto a unire e dividere i due amanti, cosa che avrebbe potuto attenuare la tensione emotiva del momento, se questo fosse possibile. Nel loro canto e nella loro tragedia umana Romeo e Giulietta rigonfiano gli occhi degli spettatori che a stento trattengono le lacrime per la loro triste fine, sino al momento più bello: i due amanti, ormai sposi, uniti e non separati dal trapasso, si pongono agli estremi del palcoscenico, correndo in sala, ai piedi del podio, stringendosi in tenero abbraccio, per poi avviarsi velocemente felici con Roméo trionfante verso l'uscita del teatro sollevando il tenue peso della dolce Giulietta, alla volta della città che l'ha uccisa nel dolore e che lei ha reso grande con la grandezza del proprio amore, ma che ora riunisce le loro anime.
Fra gli altri interpreti, degna sia di lode sia di menzione d'onore, è Annalisa Stroppa, nel ruolo Stéphano: anch'essa vince la lotta con la partitura e, soprattutto, con la regia, confermandosi interprete di lusso, in un ruolo bello ma molto breve. Giorgio Giuseppini è un Frère Laurent poco efficace e piuttosto anonimo, più alchimista di una poco riuscita fiaba che non confidente e illustre ministro di Dio. Il cast era completato dalla brava Elena Serra (Gertrude) e dagli anonimi (a causa della regia, non certo per proprio demerito) Tybalt di Cristian Ricci, Benvolio di Carlo Bosi, Mercutio di Michael Bachtadze, Pâris di Nicolò Ceriani, Gregorio di Dario Giorgelè e Le Duc de Vérone di Deyan Vatchkov. Unica nota stonata (in tutti i sensi) della compagnia di canto, il Capulet di un pessimo Enrico Marrucci.
Autentico trionfatore della serata il coro diretto da Armando Tasso, la cui magnificenza non ha aggettivi sufficienti che ne possano descrivere efficacemente l'effetto. Splendida l'amalgama delle voci; il volume imponente senza sforzi o eccessi; le dinamicheperfettamente controllate. L'ingresso del coro nel meraviglioso concertato, chiusura del III atto, suscita stupore nel pubblico, ammirato da come il complesso scaligero abbia saputo, in poco tempo, giungere a un simile livello. Ogni merito va dato allo stesso Armando Tasso, capace di selezionare ottimi elementi, portandoli alla perfezione, eccellente connubio di musicalità raffinata e passionalità estrema. Molto bene anche la concertazione di Jean-Luc Tingaud, le sezioni orchestrali sono ben equilibrate e la ricerca di colori e sfumature è pienamente appropriata alla partitura.
Le scene, non all'altezza dell'imprtanza del palcoscenico che le ospitava, erano di Edoardo Sanchi, i costumi, casuali e approssimativi, di Silvia Aymonino, le luci anonime di Paolo Mazzon. La coreografia di Nikos Lagousakos obbliga il corpo di ballo a una prova non degna dell'alta qualità che Renato Zanella pone a disposizione della Fondazione Lirica Arena di Verona. Al termine qualche fischio per i tecnici e le comparse e meritatissime ovazioni per Vittorio Grigolo e Lana Kos.
foto Studio ENNEVI