L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Anna e il Minotauro

di Roberta Pedrotti

Torna l'opera al LAC di Lugano con la prima tappa di una coproduzione di Anna Bolena che toccherà poi i teatri dell'Emilia Romagna. In una visione cupa e coerente, condivisa fra il concertatore Diego Fasolis e il regista Carmelo Rifici, si muove un ottimo cast: carmela Remiglio, Arianna Vendittelli, Ruzil Gatin, Marco Bussi, Paola Gardina, Marcello Nardis e Luigi De Donato.

LUGANO, 8 settembre 2023 - Il barbiere di Siviglia, La traviata e, ora, Anna Bolena. Fatta eccezione la sospensione per la pandemia, il Lac di Lugano ha tenuto fede al suo impegno di proporre un'opera all'anno, in questo caso, per di più, con un titolo celebre e d'autore arcinoto, ma non proprio frequentatissimo, spesso temuto dai grandi teatri, materia per interpreti di prima sfera. Si tratta di un vero salto di qualità anche per l'inaugurazione di una collaborazione internazionale, dal Ticino ai teatri italiani dell'Emilia Romagna.

Nella Svizzera italiana, però, il debutto della coproduzione ha un sapore tutto particolare, perché a circa un'ora di treno da Milano sembra già di essere catapultati in un'altra dimensione, dove l'opera è arrivata da poco, i pendolari musicali trovano ghiotte occasioni anche sinfoniche e cameristiche, ma l'atmosfera non è quella che, nel bene o nel male, si respira fra gli habitué delle nostre sale storiche. Potremmo mai immaginare un direttore che, alla terza recita e non a una prova aperta, per due volte si volta verso il pubblico e gli si rivolge? Diego Fasolis dopo la sinfonia, prima di attaccare l'introduzione, ricorda che è in atto una registrazione ma non è necessario astenersi dagli applausi; nel finale, fra il coro delle ancelle e l'attacco di “Piangete voi” pronuncia un'altra frase che però non cogliamo bene. Si rimane invero un po' spiazzati, ma la tensione dal palco e dalla buca si riaccende immediatamente, perché questa è un'Anna Bolena che non lascia indifferenti e cattura l'attenzione in ogni istante.

Fasolis ha il pregio di una coerenza che fa sì che le sue libertà non siano percepite come arbitrii, bensì come espressione di una lettura ben ponderata. Se anche può essere discutibile, non parrà illegittima o gratuita, né scontata o dozzinale. La concezione della filologia è, in questo approccio, quella di un respiro ampio, che parte dal testo nella sua integralità e autenticità critica, ma pure lo plasma sulle esigenze teatrali e vocali contingenti. Trasporti, variazioni, cadenze possono essere all'ordine del giorno facendo propria, e con convinzione, la prassi ottocentesca; in quest'ottica, e non in quella tardoromantica e verista dei tagli gavazzeniani, si può guardare alla partitura senza timori reverenziali, restituendola pressoché integra ma sempre in funzione della performance. Il diapason abbassato a 430 conferisce all'orchestra I barocchisti un colore più morbido e cupo che sottolinea la drammaticità e i contrasti senza allontanarsi da una definizione stilistica primottocentesca. Il coro della Radiotelevisione Svizzera Italiana preparato da Donato Sivo è ricco di nomi noti anche come solisti nel repertorio antico e barocco, ma questo non sbilancia l'assieme in favore delle individualità, semmai arricchisce la sonorità collettiva di individualità teatrali musicalmente coese con madrigalistica sensibilità. D'altra parte, anche i ruoli minori sono valorizzati come di rado avviene: Luigi De Donato rende davvero Rocheford un elemento chiave del dramma, causa della rovina propria e altrui con la sincera volontà di favorire la sorella Anna e l'amico Percy, degno motore dell'aria del secondo atto di quest'ultimo (“Vivi tu, te ne scongiuro… Nel veder la tua costanza”) mostrando scoramento e poi risolutezza; Marcello Nardis è un Hervey fermo, subdolo e spietato ai limiti del sadismo, a sua volta parte attiva nella tragedia.

L'inestricabile quadrato di sentimenti e potere fra il re, la regina, l'amante dell'uno e il primo amore dell'altra (cui si aggiunge, pedina fatale, il paggio innamorato) si trova, così, perfettamente iscritto e contestualizzato in un contesto di corte in cui sospetti, trame, sguardi indiscreti, incubi e angosce avvolgono costantemente i protagonisti. Lo spettacolo di Carmelo Rifici si avvale di un grigio labirinto girevole ideato da Guido Buganza e illuminato da Alessandro Verazzi, immagine fisica di quei corridoi in cui si annidano sguardi indiscreti pronti a cogliere ogni occasione per entrare nel privato dei Reali e accrescere il proprio potere, ma anche immagine di una prigione metaforica, di una condizione psicologica senza vie d'uscita. I costumi classici ma privi di univoche connotazioni storiche di Margherita Baldoni e i movimento coreografici di Alessio Maria Romano completano una costruzione teatrale che, in sintonia con la concertazione, non teme di mostrare gli aspetti più cupi e violenti della vicenda della seconda moglie di Enrico VIII. Una vicenda di tanto sofferta che, in un significativo ribaltamento fra le ragioni della sopraffazione e dell'innocenza, nelle altre opere Tudor la madre Anna sarà per Elisabetta ragione di oltraggi (“Figlia impura di Bolena […] profanato è il soglio inglese, | vil bastarda, dal tuo pie'”, Maria Stuarda) e il padre Enrico di terribile orgoglio (“pria d'offender chi nascea | dal tremendo ottavo Enrico, | scender vivo nel sepolcro | tu dovevi, o traditor”, Roberto Devereux).

L'Enrico VIII di Marco Bussi è, difatti, il minotauro di questo claustrofobico labirinto d'orrore, un vero e proprio Barbablù. Prendono allora forma intorno a lui gli incubi dell'adolescente Smeton: Paola Gardina non solo offre un'eccellente prova vocale, ma anche e soprattutto ne fa parte integrante di una lettura di grande intensità attoriale, fra turbamenti erotici, sventatezza, atroci presagi che si concretizzano in ancor più atroci sofferenze. “Mesto, o sire, per natura, destinato a vita oscura” è per indole, non certo per qualità, il Percy di Ruzil Gatin, che ne rende il carattere nobile e sentimentale, i ripegamente malinconici con un canto svettante e ben tornito, nonché con trasparente e consapevole dizione italiana. Coerentemente con una prassi che ancora non identifica la seconda donna con il mezzosoprano romantico, Giovanna Seymour è Arianna Vendittelli, rivale che si misura con Bolena nella stessa tessitura, differenziandosi per colore e accento, con un metallo chiaro e leggermente asprigno, ben confacente a uno spirito diviso fra rimorso e ambizione.

Anna Bolena, infine, è Carmela Remigio, esempio di totale interiorizzazione e compenetrazione fra dramma e canto. Perfino un piccolo lapsus (“Fra lei sorga e il reo mio sposo” invece di “suo sposo”) si carica di ancor più febbrile fierezza, indomita dignità nell'affermare il proprio diritto e la macchinazione di cui è vittima. È lo stesso moto di rivolta che brucia nelle parole “a questa iniqua accusa | mia dignità riprendo” o in “Giudici ad Anna”, quando non appare incredula, bensì colma di una rabbia che solo l'orgoglio del proprio rango le impedisce di sfogare. In questi momenti più drammatici, la natura lirica della voce non si forza in impeti che non le sono propri, bensì sfrutta la tensione e finanche talune opacità per dar percezione completa e sofferta di un'esperienza che ha consunto, torturato la liliale purezza originaria. Questa, allora, risuona tanto più forte e luminosa quando riemerge negli abbandoni lirici, dalla dolcezza malinconica di “Come, innocente giovine” alla fuga dalla realtà di “Al dolce guidami”. Non c'è una sillaba, una nota che sia trascurata e che non esprima tutto il groviglio di rimorsi, rimpianti, rivendicazioni, nobiltà, tenerezza e dolore di Anna Bolena.


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