L'orrore della guerra, la gioia del Belcanto
di Luigi Raso
Maometto II torna al San Carlo dopo quasi due secoli in uno spettacolo potente e controverso che si avvale di un'entusiasmante lettura musicale.
NAPOLI, 31 ottobre 2023 - Gli orrori della guerra irrompono in scena e nel nostro eterno presente. È un atto di denuncia della barbarie della violenza, che travolge e disumanizza vincitori e vinti, lo spettacolo che Calixto Bieito firma per l’attesissimo ritorno di Maometto II di Gioachino Rossini al Teatro San Carlo.
A Napoli, in duecentotré anni, soltanto tre produzioni: la prima assoluta del 1820, la ripresa del 1826 e stasera, dopo centtonovantasette anni di silenzio (ma Maometto II ha ripreso a circolare nei teatri dopo la riscoperta del Rossini Opera Festival del 1985), questa produzione, affidata alla esperta bacchetta di Michele Mariotti e al provocatorio regista spagnolo Calixto Bieito, che per la prima volta firma uno spettacolo per il San Carlo. Spettacolo dall’indiscutibile impatto emotivo, che punta a spiazzare e disorienta il pubblico, a far riflettere sulla tragica atemporalità della guerra.
All’interno dell’impianto scenico very minimal di Anna Kirsch - due fondali, bianco per il primo atto, nero per il secondo - e delle luci, molto statiche, di Michael Bauer vaga un’umanità sconfitta. Non c’è un preciso riferimento temporale: i costumi di Ingo Krügler vestono uomini e donne, militari a noi contemporanei. L’eterno presente della violenza, la sua immanenza negli aggrovigliati corsi e ricorsi storici del genere umano è il fulcro attorno il quale ruota l’idea registica di Bieito: Rossini e il suo librettista Cesare della Valle raccontano una storia di assedi, distruzioni, morte, ultimatum di quasi sei secoli fa; purtroppo nulla di più eternamente connaturato alla storia umana, ai fatti degli ultimi due anni. Di questi orrori Bieito ci dà una rappresentazione declinata nel nostro tempo: i più piccoli, e tutto ciò che ruota intorno al loro mondo, sono le vittime principali dell’assurdità della guerra. Scuote l’immagine di Selimo che prende violentemente a pugni un bambino adagiato nell’interno del passeggino.
La violenza irrompe nella quotidianità: la sua brutalità sorprende donne che spingono passeggini, carrelli della spesa, persone che girano con il monopattino, che giocano con un pallone. Bambini, uomini e donne, militari: tutti travolti dalla guerra, tutti stremati dall’assedio della violenza.
Per illustrare questo concetto Calixto Bieito si affida a trovate registiche indubbiamente discutibili, le quali, in assenza delle note nel libretto di sala, si prestano a molteplici e opinabili interpretazioni. Paolo Erisso si presenta in scena deambulando mentre è sottoposto ad ossigenoterapia, rimando, forse, alla sua condizione governatore di un’umanità di assediati; chi appare come vincitore, trasporta sacchetti con dentro bottino di guerra, ha mani lorde di sangue innocente. I cavalli di Frisia disseminati sulla scena, oggetti feticcio di questa messinscena, oltre ad essere ostacoli difensivi militari appaiono sono un richiamo alla Croce, simbolo universale, metareligioso e atemporale, della sofferenza: su un cavallo di Frisia viene torturato e quasi crocifisso un prigioniero, su un altro allargherà le braccia Anna in chiusura dell’atto I.
Chi è convinto di conquistare il mondo non farà altro che distruggerlo: è una suggestiva (semi)citazione dal film Il grande dittatore di Charlie Chaplin la scena in cui Maometto II gioca con una mappa geografica mondiale: i fatti narrati da Rossini risalgono all’assedio di Negroponte del 1470, il film di Chaplin è del 1940; e oggi calpestano la crosta terreste dittatori e folli criminali che si divertono a “giocare” con i destini dell’umanità. Il teatro e l’arte sono lo specchio del presente.
Ma non si può negare che la regia di Bieito ricorra a trovate irrisolte, che con la rilettura e la drammaturgia dell’opera hanno ben poco da spartire: non è chiaro il senso della sottolineatura degli impulsi autolesionistici di Anna, dell’accenno a pratiche sadomaso nel lungo duetto fra lei e Maometto nell’atto II, dell’elevazione a mezz’aria dei cavalli di Frisia/croci durante la trasformazione della scena nei sotterranei del tempio, l’agitare da parte di Calbo dei sacchetti neri dei rifiuti indifferenziati.
E ancora: dal palcoscenico provengono rumori molesti che distraggono dall’esecuzione musicale; il coro è ingabbiato in un sostanziale immobilismo, spesso dà le spalle al pubblico; ai cantanti (a Maometto II, in particolare) è richiesto di cantare in posizioni scomode; il movimento e la gestualità dei cantanti sono poco accurati.
Dubbi e incertezze interpretative sul disegno registico, e soprattutto su molte delle sue trovate, restano; ma al termine dello spettacolo resta impressa nella memoria, e violentemente, la raffigurazione nuda e cruda della violenza e della degradazione dell’umanità che ogni guerra porta con sé.
Se la regia dà adito a incertezze e soluzioni interpretative non univoche e discutibili, il versante musicale convince e conquista immediatamente, grazie alla concertazione travolgente e teatrale di Michele Mariotti e a un cast vocale che schiera tra i migliori specialisti rossiniani dei nostri giorni.
È una lettura tesa, sbalzata nelle dinamiche, nell’articolazione del fraseggio delle melodie di Rossini quella che Michele Mariotti imprime a Maometto II. Si percepisce immediatamente la cura dei particolari - non c’è gemma strumentale e armonica che non sia valorizzata -, la compatta e teatrale visione d’insieme: agogica serrata, narrazione fluente, incisività, abbandono lirico, sbalzo e tensione impresso alle grandi forme rossiniane (meravigliosa, per la concatenazione dei tempi, la cura del fraseggio e dei colori, l’esecuzione del cosiddetto. “terzettone” “Ohimè, qual fulmine!”). Quella di Michele Mariotti è una direzione rapinosa, che della innovativa scrittura orchestrale di Rossini del 1820 mette in luce i prodromi musicali romantici che germoglieranno nei decenni successivi. È immersa, infatti, già nella temperie musicale romantica la meravigliosa e articolata Gran scena ed aria “Alfin compiuta è una metà dell'opra”.
L’idea interpretativa di Michele Mariotti è ottimamente assecondata dall’Orchestra del Teatro San Carlo, la quale, benché il numero di prove della produzione sia stato ridotto dalla proclamazione dello sciopero nazionale delle Fondazioni liriche e da rivendicazioni locali, è precisa, incisiva, scintillante in tutte le sezioni, recettiva di ogni indicazione proveniente dal podio. Da elogiare le prime parti, tra le quali l’ottimo primo clarinetto di Luca Sartori e la prima arpa di Elena Vallebona.
Il giudizio sul Coro, diretto dal Maestro del Coro Aggiunto Vincenzo Caruso, impone un distinguo: se la sezione maschile appare compatta, precisa, dal suono netto e poderoso, quella femminile denota, come già evidenziato nella recente Beatrice di Tenda (qui la recensione: https://www.apemusicale.it/joomla/it/recensioni/74-opera/opera-2023/14721-napoli-beatrice-di-tenda-23-09-2023), qualche scollamento di troppo, non adeguata incisività e sostegno sonoro. La sezione migliora nell’atto II, ma degli elevati standard esecutivi raggiunti fino a solo qualche mese fa resta, purtroppo, uno sbiadito ricordo.
Ottime notizie anche dal fronte vocale: Dmitry Korchak, nei poco agevoli panni vocali di Paolo Erisso, domina con naturalezza l’impervia scrittura vocale: acuti precisi, svettanti, linea di canto incisiva e corretta, che gli consente di superare anche un momentaneo e giustificabile momento di annebbiamento vocale sul finire dell’atto I. Korchak, interprete dal fraseggio accurato e raffinato, con spiccato senso dell’articolazione della melodia rossiniana, disegna un Paolo Erisso dalla psicologia tormentata e credibile scenicamente.
Semplicemente meravigliosa Vasilisa Berzhanskaya nei panni di Anna: il giovane mezzosoprano russo domina e fa suo, vocalmente e interpretativamente, una delle più complesse “parti Colbran”. Il timbro brunito, l’omogeneità dei registri e l’ottima emissione consentono alla Berzhanskaya di affrontare e risolvere tutte le insidie della parte: legato fluido e intenso, acuti timbratissimi, corposo registro basso, abbandono lirico, pulizia e nitore delle colorature, incisività degli accenti costituiscono l’armamentario tecnico di un’esecuzione entusiasmante, che trova nel rondò finale la sua più compiuta sintesi.
E dietro un’esecuzione vocale tecnicamente ineccepibile c’è un’interprete che dà voce ad ogni piega dell’animo di Anna: se in principio appare interpretativamente più “trattenuta”, nel corso dell’opera si scioglie: il fraseggio si fa sempre più cesellato, l’impeto drammatico sempre più incalzante, fino alla mirabile scena finale.
Roberto Tagliavini è un Maometto II che si giova di notevoli mezzi vocali: bel timbro, morbidezza e rotondità dell’emissione, registro acuto luminoso e possente, controllo delle colorature, carisma vocale. Sin dalla cavatina d’esordio “Sorgete, in sì bel giorno” il basso parmigiano ammalia per la dizione scolpita, l’incisività del fraseggio, l’eleganza della linea di canto. È un Maometto spavaldo e nobile: dall’interpretazione di Tagliavini emergono il condottiero sanguinario e l’uomo innamorato e tormentato.
Convincente, sebbene sconti la tendenza a gonfiare eccessivamente i suoni nel registro centrale e qualche forzatura di troppo in quello basso, Calbo di Varduhi Abrahamyan, mezzosoprano armeno dal timbro suggestivo, dotato di buona tecnica vocale e di eccellenti intenzioni interpretative.
Quanto ai ruoli secondari, le prove di Li Danyang, Condulmiero, e Andrea Calce, Selimo, si adeguano all’elevato livello qualitativo dell’intero cast vocale.
Applausi prolungati per tutti, con una punte di ovazioni per Vasilisa Berzhanskaya, Michele Mariotti e Roberto Tagliavini (in ordine decrescente, secondo il personale e impreciso applausometro) chiudono una delle serate musicali più interessanti e ricche di stimoli della storia recente del San Carlo.