Il patrimonio del canto
di Roberta Pedrotti
In concomitanza con il riconoscimento del Canto lirico a Patrimonio culturale immateriale dell'umanità, alla Scala in Don Carlo si impone un cast lussureggiante, con l'arte sopraffina di Michele Pertusi e le primedonne Anna Netrebko ed Elīna Garanča. La concertazione di Riccardo Chailly, minuziosissima, divide, mentre è pollice verso per la regia di Luìs Pasqual.
MILANO, 7 dicembre 2023 - C'è chi nel Sette Dicembre vede solo il luccicare di abiti bizzarri e vip più o meno noti, ma il rito laico ambrosiano può significare molto di più, quando un'intera comunità si raduna intorno all'opera sotto l'occhio delle telecamere che porta la platea a un infinito potenziale, quando il palco reale, con la rappresentanza istituzionale, attira non meno attenzioni di quello dirimpetto dove l'azione riflette la nostra realtà. Si nota subito l'assenza del presidente Mattarella, osannato negli ultimi anni, e il popolarsi dei posti d'onore per le autorità passa abbastanza inosservato, tranne che all'affacciarsi della senatrice Segre, salutata da un applauso. Ancora qualche minuto di silenzio e Riccardo Chailly dà l'attacco per l'inno nazionale al termine del quale il bel grido dal loggione “Viva l'Italia antifascista” scatena un nuovo vivace moto d'approvazione dalla sala, come una corrispondenza ideale con il grido di libertà di Don Carlo e del Marchese di Posa, con l'accesa perorazione per una pace che sia autentica e non quella dei sepolcri. L'opera, con il suo profondissimo significato politico, è un tutt'uno con il mondo che la circonda. Il palco uno specchio. Ma, ancora, non è tempo che si levi il sipario sul capolavoro di Verdi. Il sovrintendente Meyer prende la parola per sottolineare la coincidenza della prima con il riconoscimento da parte dell'Unesco del canto lirico come patrimonio immateriale dell'umanità. Una soddisfazione che è anche un monito non sappiamo quanto recepito da alcune autorità presenti.
Tuttavia, è proprio il canto - nella sua accezione più alta di espressione di saperi pratici, cultura, tradizione, discipline e conoscenze - che si fa protagonista stasera, con un cast lussuosissimo e soprattutto, senza nulla togliere ai colleghi, con la presenza di Michele Pertusi come Filippo II. Qualche piccolo segno di affaticamento, al quale si tenderebbe a non dar peso di fronte alla grandezza del musicista e del fraseggiatore, viene spiegato ancora da Meyer all'inizio del terzo atto, con l'annuncio di una indisposizione. E a maggior ragione così Pertusi ci ricorda che un artista non si misura dal rigoglio dei mezzi e dalla forza fisica, ma da ben altro, essere umano anche fragile ma padrone della propria mente, della tecnica e dell'espressione. Per esempio, lo dimostra il caleidoscopio di sfumature che si concentrano nella dolorosa, intima spossatezza di “Ella giammai m'amò”, nel misto di vulnerabilità e fierezza che anima i due grandi duetti politici con Posa e con il Grande Inquisitore, nella cura devota dell'articolazione musicale del senso, del suono. Michele Pertusi rappresenta come meglio non si potrebbe una civiltà del canto, canto teatrale, poetico, pensato.
Ciò, naturalmente, non significa che il canto come patrimonio dell'umanità non sia stato ben rappresentato in altre sue declinazioni. Per esempio quella di Elīna Garanča, che come Pertusi si trova oggi alla sua prima inaugurazione scaligera. La sua è una Eboli dal timbro fascinosissimo, denso, brunito e pure squisitamente femminile; dipana con disinvoltura le colorature della Canzone del velo senza mai perdere il fuoco di un nobile legato plasmato sul testo, né di un'omogeneità d'emissione che permette comunque all'acuto di svettare sicuro e luminoso, al fraseggio di sfumarsi in ogni gradazione dinamica ed espressiva. Sembra il contraltare perfetto di Anna Netrebko, che invece è al suo sesto Sant'Ambrogio e si presenta come la regina della situazione. La sua Elisabetta è opulenta, imperiosa: se la “tigre al cor ferita” rende la sensualità nelle ombre del timbro, la principessa di Valois costretta a sposare il re di Spagna fa dei colori più cupi il manto del ruolo che le si è imposto, di dolore e dovere, ma anche di consapevolezza e, nel finale, fiera adesione all'utopia ereditata da Posa. Poi, nella delicatezza di un pianissimo autentico, ben appoggiato, duttile e ispirato, fa riemergere l'animo della giovane innamorata, il sogno perduto di quell'atto di Fontainebleau che, negato nella versione milanese dell'opera, aleggia come un fantasma nel tema del sentimento impossibile fra i due giovani. Peccato solo che la pronuncia italiana non sia nitida come tale canto meriterebbe.
L'alto livello è confermato anche dal Marchese di Posa di Luca Salsi e dal Don Carlo di Francesco Meli. Il primo dice e canta assai bene, con voce timbrata e gran cura musicale, ponendo al servizio del personaggio la concretezza di un temperamento lo renderebbe più affine a figure a tinte forti come Macbeth rispetto allo spirito idealista dello “strano sognator”. Il secondo ha sempre dalla sua la bellezza della voce, la chiarezza espressiva e la sintonia con il podio nella ricerca dei colori e accenti, sebbene si noti anche una certa perdita di confidenza con il registro acuto (l'appuntamento scabroso con il Si naturale del finale secondo è opportunamente evitato).
Per quanto riguarda il Grande Inquisitore e il Frate, personaggi che, sì, compaiono poco in termini di quantità ma sono determinanti nell'economia dell'opera, ci troviamo di fronte a un curioso girotondo: indisposto l'inquisitore titolare Ain Anger, gli subentra Jongmin Park, previsto come Frate e in effetti confermato anche per le frasi della prima scena (forse fra un atto e l'altro viene promosso da semplice monaco a capo del Sant'Uffizio), mentre il momento di compresenza nel finale è risolto affidando l'intervento di Carlo V a Huanhong Li, che prima era stato un Deputato Fiammingo (magari convertito e poi posseduto dall'anima del “sommo imperator”?). Alla fine, messi da parte gli scherzosi commenti da foyer, si ascoltano due ottime e robuste voci di basso, anche se Park nel confronto, spietato, con Pertusi finisce inevitabilmente per risultare un po' troppo monocorde, con ampio margine di miglioramento nella pronuncia. L'omogeneo gruppo dei fiamminghi vede Li affiancato da Chao Liu, Wonjun Jo, Giuseppe De Luca, Xhieldo Hyseni, Neven Crnić, mentre il Conte di Lerma e l'Araldo sono appannaggio di un puntuale Jinxu Xiahou. Elisa Verzier fa bella figura come Tebaldo, e così Rosalia Cid come Voce dal Cielo.
La festa del canto è completata dal coro scaligero preparato da Alberto Malazzi: una meraviglia per nitore, compattezza, teatralità e finezza. Fa il paio con un'orchestra in grande forma, degna della sua fama, curata con acribia da uno scrupolosissimo Chailly, tutto proteso a esaltare un tessuto strumentale dai tratti perfino perentori, a sbalzare dettagli e dipanarli nella maestà di un grande arazzo funebre, anche a costo di sacrificare qualche fiammata di pathos o una teatralità più serrata, ponendosi al contrario talora al limite di un calcolato distacco. Ne è un esempio lo splendore, pur emotivamente trattenuto, delle pagine introduttive di ciascun atto. Non a tutti, alla fine, piace, ed è legittimo, ma il suo lavoro ha la coerenza di una ratio rigorosissima. Anzi, semmai resterebbe la curiosità di sentire questo tipo di lettura nelle proporzioni più distese della versione in cinque atti – preferibilmente in francese – ma purtroppo pare che in Italia Fontainebleau fatichi a guadagnare i palcoscenici, così come lo splendido libretto originale cui Verdi fece sempre riferimento.
Quel che invece appare senza scampo fallimentare, come confermano anche le copiose contestazioni al termine, è la regia di Lluis Pasqual. Se usciamo dal regno del canto e dalle scelte del concertatore, purtroppo non troviamo adeguata corrispondenza sulla scena e l'opera risulta sbilanciata a sfavore del dramma inteso come azione teatrale, per Verdi tanto importante. A poco valgono i bei costumi di Franca Squarciapino se poi i cantanti non sono trattati come attori, come personaggi, ma come manichini da disporre a debita distanza l'uno dall'altro senza disturbar nessuno, men che meno chiedere di recitare. Per non parlare dell'impianto scenico di Daniel Bianco, che avrebbe perlomeno il merito di evitare laboriosi cambi di quadro e tuttavia, quando non si limita a far da sfondo, offre strumenti per trovate che corteggiano il limite del ridicolo, come la botola dove vengono fatti saltare gli eretici, poi coperta da una griglia fiammeggiante e quindi pronta a far apparire ex machina inquisitori e imperatori. E il velo della canzone si vorrebbe stendere sulla scenetta dei nani di corte mentre Eboli evoca le notti del “saracin ostello”, così come sulla goffaggine con cui Pasqual cerca di animare le scene d'insieme senza uscire da stucchevoli simmetrie. Ricordiamo ancora con nostalgia la prima inaugurazione scaligera sotto la direzione di Chailly, con una Giovanna d'Arco che fu vero teatro musicale. Qui, purtroppo, non solo il teatro ha abdicato alla sua importanza nell'economia della produzione operistica, ma non si è nemmeno ridotto a cornice innocua, trasformandosi semmai in una zavorra. Peccato davvero. Ci consola, però, vedere che il pubblico – perché alla prima della Scala, checché creda qualcuno, vanno anche persone davvero appassionate e dotate di discernimento – si sia fatto sentire anche dividendosi e senza fermarsi alle comode e vuote etichette di moderno e tradizionale. Ha decretato semplicemente non riuscito il lavoro di Pasqual al di là dell'epoca in cui è collocata l'azione, si è diviso su una concertazione che non era fatta per accontentare tutti ma non meritava certo una condanna, ha premiato il cast incoronando Netrebko, Garanča e Pertusi.