Tre diverse anime novecentesche
All’Accademia Nazionale di Santa Cecilia il maestro Antonio Pappano dirige un concerto di musiche del primo Novecento: la Sinfonia n. 1 in re maggiore op. 25 “Classica” di Sergej Prokof’ev, il Concerto in sol per pianoforte e orchestra di Maurice Ravel e, infine, la Sinfonia n. 5 in mi bemolle maggiore op. 82 di Jean Sibelius. Alla tastiera, per Ravel, siede Víkingur Ólafsson, che sostituisce un’indisposta Martha Argerich.
ROMA, 20 gennaio 2023 – L’idea di proporre brani di autori diversi, ma appartenenti al medesimo periodo di tempo, è sempre proba. Poter educare il pubblico non solo a godere della bellezza assoluta della musica, ma anche stimolarlo alla riflessione su un ristretto lasso di tempo (quello che va dalla Grande Guerra al periodo più prossimo ad essa), non può che suscitare il massimo interesse. Quando, poi, ad essere rappresentativi di un determinato periodo sono tre stili ed approcci così differenti, le personalità dei tre singoli compositori emergono ancor più nette dalle loro opere.
La serata inizia con una splendida esecuzione della “Classica” di Prokof’ev. Sinfonia ‘fulminea’, si tratta di una perla rara e delicata, che Antonio Pappano tratta con grande cura; da par suo, l’orchestra suona divinamente, immergendo l’ascoltatore in un’atmosfera solo apparentemente haydniana. L’idea di Prokof’ev è proprio quella di creare una sinfonia in stile classico, rifacendosi direttamente al padre della sinfonia classica, Haydn. Pappano è molto bravo nel far emergere, nella tessitura del discorso sinfonico, gli elementi più autenticamente prokofeviani e novecenteschi. Al tema dell’Allegro, squisitamente classico, tanto che sembra proprio provenire dalla penna di Haydn, si oppongono, non in maniera ossimorica, ma con straniante e seducente amalgama, gli impasti orchestrali, le dosate dissonanze, tipiche dello stile novecentesco. Come ben scrive S. Cappelletto nelle note di sala, parlando proprio del I movimento, «là in fondo sembra proprio che Luigi XVI con la sua corte incipriata e imparruccata stia entrando in sala, se non fosse per la graffiata di un passaggio veloce e in fortissimo, staccato in tempi impensati per Haydn, che lo rimanda indietro». Insomma, il direttore sa cogliere bene questi momenti che sorprendono l’ascoltatore, ben impastati all’interno dell’impalcatura neoclassica della sinfonia. Ben nota, ancora, Cappelletto, quando ricorda che la “Classica”, con la sua Gavotte e il rutilante Finale in forma di rondò, venne pensata e composta nel pieno degli orrori della Grande Guerra: «talvolta chiediamo all’arte conforto, un’idea tranquilla di bellezza, di ordine, magari mentre nel mondo intorno accade esattamente il contrario».
Il secondo pezzo del I tempo è il Concerto in sol di Ravel. L’avrebbe dovuto eseguire Martha Argerich, che – a causa di un’indisposizione – è costretta a cancellare tutti i suoi impegni. C’è da aspettarsi che il nome della Argerich abbia, di per sé, attirato una parte del pubblico presente in sala: del resto la Argerich è, oramai, nell’olimpo delle leggende del pianoforte. Eppure, la performance di Víkingur Ólafsson non ha certo fatto rimpiangere la diva. Ólafsson, infatti, è un pianista di straordinaria sensibilità, con doti da assoluto virtuoso; non, però, di un vacuo virtuoso, ma di un pianista solido, realmente interessato a comprendere come rendere al meglio ciò che sta eseguendo. Il Concerto in sol, quindi, riesce splendidamente. Pappano e Ólafsson hanno un’ottima intesa. Nel I tempo (Allegramente), oltre all’indimenticabile tema, dal sapore gershwiniano, apprezzabilissimi sono i passaggi puramente virtuosistici del pianoforte, che da uno stile percussivo, passa a momenti che oscillano fra il jazz ed il blues: il tutto tradisce lo spirito sincretico ed internazionale di Ravel, che ha sempre mostrato grande sensibilità per i generi musicali non classici, a lui contemporanei. Il tocco sopraffino ed il naturale fraseggio di Ólafsson si percepiscono tutti nel lungo assolo del pianoforte che apre l’Adagio assai, che confluisce in un dialogo con un velo orchestrale magistralmente trapunto; Ravel, qui, dà prova non solo del suo magistero compositivo, ma anche di saper suscitare malinconia delicatissima, in una forma tersa. Il virtuosismo più squisitamente percussivo di Ólafsson emerge rutilante nell’ultimo movimento, il Presto. Prima di congedarsi, fra scroscianti applausi, il pianista, dalle innate doti comunicative, esegue ben due bis: la trascrizione pianistica di Stradal del secondo movimento della Sonata per organo n. 4 BVW 528 di Bach e la Sonata n. 55 di Domenico Cimarosa.
Il concerto si conclude con una monumentale esecuzione della Quinta di Sibelius. Il repertorio tardo-romantico è quello in cui Pappano sembra esprimersi al meglio, destreggiandosi superbamente nelle complesse architetture orchestrali delle sinfonie di questi autori. In tal senso, Sibelius, pur scrivendo la Quinta nello stesso periodo in cui Prokof’ev compose la “Classica”, si dimostra ancora fortemente legato al repertorio sinfonico tardo-romantico. La monumentalità orchestrale e architettonica della sinfonia lo dimostrano inconfondibilmente. Se il concerto è incominciato con un compositore che recupera il classicismo ed è proseguito con un altro, invece, profondamente sensibile all’attualità musicale, si conclude con un interprete novecentesco di un repertorio che con lui (e con pochi altri) avrà il suo canto del cigno. Come Pappano stesso spiega prima di impugnare la bacchetta e dirigere, forse Sibelius non avrebbe gradito essere paragonato al sublime romantico per eccellenza, l’immagine di una straordinaria forza naturale; eppure – sostiene Pappano – chiudendo gli occhi si può, forse, arrivare ad immaginare proprio questo. Come che sia, la direzione della sinfonia è impeccabile, l’orchestra incredibile; Pappano sa rendere ottimamente gli elementi imprescindibili dell’arte di Sibelius: una scrittura immaginifica, che proietta la melodia soprattutto nell’uso compatto degli archi (come nell’Andante mosso), ma anche delle complesse architetture musicali (nel I tempo), lasciando spazio ad un alone di mistero, incarnato dagli enigmatici accordi con cui si chiude l’Allegro molto finale.