Poker d'assi e una regina
In un magnifico concerto il Quartetto Jerusalem attraversa quasi due secoli di musica, da Haydn a Dvořák e Šostakovič. Per quest'ultimo si unisce a loro un'idiomatica Elisabeth Leonskaja.
BOLOGNA, 20 febbraio 2023 - Haydn, Dvořák, Šostakovič; Quartetto per archi n. 35 in fa minore op. 20 n.5 (1767), Quartetto per archi n. 12 in fa maggiore op. 96 Americano (1893), Quintetto per pianoforte e archi in sol minore op. 57 (1940). Quasi duecento anni in tre tappe seguendo il fil rouge della formazione regina della musica da camera, delle sue codificazioni classiche e delle divagazioni intorno al tema dato. Già, perché del padre ideale del genere quartettistico si esegue un pezzo che inverte la disposizione canonica dei movimenti e pone il Minuetto. Trio come secondo prima dell'Adagio, mentre nel Finale la fuga a due soggetti fa sfoggio di dottrina. Si attiene alla sequenza classica, con il secondo movimento lento, il boemo che, come nella celeberrima sinfonia, si diverte a mescolare le carte fra vecchio e nuovo mondo ispirandosi al folklore delle comunità di compatrioti negli Stati Uniti. Infine, il russo amplia l'organico e amplia la struttura, con cinque movimenti che rispettano l'alternanza tradizionale fra lenti e mossi e comprendono anche una fuga e uno Scherzo che sa di minuetto.
A guidarci in questo percorso, per la stagione di Musica Insieme, abbiamo il debutto locale del Quartetto Jerusalem, cui si aggiunge al pianoforte per Šostakovič Elisabeth Leonskaja. Un poker d'assi e una regina, insomma: difficile immaginare di meglio e il risultato non delude le aspettative. Il quartetto si esprime in un perfetto equilibrio, con un calore e una morbidezza di suono che non offuscano mai il nitore dell'articolazione, la plastica adesione alla poetica e allo stile di ciascun brano e ciascun autore. Tanto è nobile e affabile Haydn, quanto è saporito e guizzante Dvořák, caleidoscopico Šostakovič, con il tocco di Leonskaja che contribuisce a definire lo scatto energico, ritmico, percussivo, non privo di sarcasmo come il suo sciogliersi nell'abbandono lirico più introspettivo. La simbiosi nella ricerca dei colori, nell'intreccio delle parti, nella fluidità dialettica distilla quel che dovrebbe essere il principio fondamentale della musica da camera, che respira qui con un'ampiezza tale da abbracciare tutto il pubblico e, pure, non trascura un dettaglio, un affetto. Ecco, allora, le sonorità soffici e soffuse, ma sempre ben definite sul cupo incedere del pianoforte, che si accendono nello scintillare pirotecnico di frammenti ritmici e melodici in cui improvvisamente la tastiera s'illumina con i violini, per poi tornare a cantare con intima, sincera intensità. E con l'arte di chi sa rendere il suono sempre pregnante e presente in tutta la gamma dinamica, in tutto lo spettro agogico e coloristico, nell'ampia cavata o nel virtuosismo nervoso.
Tutto si conferma nel bis, dal Quintetto n. 2 di Dvořák, in cui Alexander Pavlovsky e Sergei Bresler (violini), Ori Kam (viola) e Kyril Zlotnikov (violoncello) con Elisabeth Leonskaja dispiegano ancora una volta il potenziale poetico di una tecnica perfetta e di una rara sapienza d'artisti, della sintesi coesa di voci diverse come un unico organismo.