Slancio e dissonanza
di Stefano Ceccarelli
L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia presenta un concerto, diretto da Juraj Valčuha, dove vengono eseguiti il Concerto n. 2 in la maggiore per pianoforte e orchestra di Franz Liszt e la Sinfonia n. 8 in do minore op. 65 di Dmitrij Šostakovič.
ROMA, 3 marzo 2023 – Il concerto diretto da Juraj Valčuha all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia presenta un percorso che dal pieno romanticismo porta l’ascoltatore fino al modernismo russo. Il primo tempo è occupato dal Concerto per pianoforte n. 2 di Franz Liszt, un pezzo inusuale per struttura, ma intimamente romantico nelle sonorità. Al pianoforte siede Francesco Piemontesi, dal tocco deciso, ancorché fluido. Il suo pianismo, certamente vigoroso, amante del suono pieno, ben si adatta al virtuosismo a tratti spianato del Liszt più ispirato, capace di scrivere fra le pagine più funamboliche della letteratura pianistica. Con un vero e proprio coup de théâtre, però, il concerto inizia con un Adagio sostenuto assai dai toni fiabeschi e sospesi: qui Piemontesi dà prova di grande tocco, con uso atmosferico del pedale, verticalizzando in maniera gentile, pur sempre però imprimendo decisione al suono del pianoforte. Valčuha è forse fin troppo deciso con l’orchestra, ma l’agogica è azzeccata. Il pianismo di Piemontesi si sposa particolarmente bene con la climax che conduce a passaggi puramente lisztiani, da cavalcata infernale, sulle quali l’interprete sfrena l’energia propulsiva della scrittura del compositore. Valčuha segue con l’orchestra, creando un’impalcatura ritmica. La bellezza di questo Secondo concerto sta nella varietà rapsodica dei temi, che ondeggiano da sezioni contemplative ad altre più energiche. In tal senso, l’Allegro moderato è un esempio di scrittura tersa e placida, una sezione che viene armonicamente sviluppata in maniera cameristica (l’episodio con il violoncello è sublime). Nei due movimenti finali prevale un’intensa scrittura marziale e tzigana, che trascina orchestra e interprete in un vortice che anticipa molto del gusto gershwiniano. Orchestra, direttore ed interprete sono molto applauditi. Piemontesi regala lo Studio op. 4, n. 3 di Szymanowsky a mo’ di bis.
Il secondo tempo è interamente dedicato all’Ottava sinfonia di Šostakovič. Valčuha ne propone una lettura con mano decisa, che ha nell’esaltazione dei contrasti la sua miglior qualità. Non è forse tanto nell’attenzione ai particolari il dato principe di questa lettura di Valčuha, quanto piuttosto nel sapiente dosaggio dei volumi e dei colori, volto, appunto, all’esaltazione dei contrasti. La mano di Valčuha si fa decisa, netta. Lo si nota fin dall’Adagio incipitario, che ha del bruckneriano nell’uso massiccio degli archi, sfumati in ondulazioni di volumi, dove Valčuha fa ben respirare l’orchestra. A questo episodio segue un Allegro non troppo, dove la scrittura di Šostakovič si fa molto rigida, marziale, sforzata, il tutto ben sottolineato da un’agogica spedita e dall’innalzamento della tensione e del volume orchestrale. Nell’Allegretto (II) il direttore e l’orchestra interpretano bene gli elementi distintivi del pezzo, come l’incessante ritmo anapestico o i passaggi più ironici, che si accumulano arrivando ad «un culmine trionfalistico che ha qualcosa di chiaramente malsano» (Luca Ciammarughi, dal programma di sala). I temi cardine della scrittura šostakovičana, vale a dire le dissonanze ad effetto, la parodia militare ed un certo qual gusto ironico e beffardo, sono miscelati assieme in un angosciante moto perpetuo, l’Allegro non troppo (III), ben tenuto dall’orchestra sotto la bacchetta di Valčuha, il quale esalta i sussulti ed i contrasti della scrittura, che risulta a tratti quasi inarrestabile. Nel successivo Largo (IV), il direttore mette in campo la stessa sensibilità usata per l’Adagio incipitario: sottolineare la sinistra linea degli archi, acuire il chiaroscuro, evidenziare gli interventi dei legni e degli ottoni. Il finale Allegretto (V) è un po’ il contraltare dell’Allegro non troppo del I movimento: anche se la scrittura di Šostakovič si fa graffiante, il tono trionfalistico si stempera non in una parodia militare, ma piuttosto in forme armonicamente conciliatorie – anche nel linguaggio tonale. La mano di Valčuha si fa, dove necessario, più tenue e l’orchestra sa cavare momenti surreali, come la coda sonora finale. Gli applausi invadono la sala; si deve comunque sottolineare il notevole sforzo fisico, per gli interpreti, di mantenere una tensione ed un livello tale per più di un’ora di musica.