L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L’assalto agli Studi

di Alberto Ponti

Il ritorno del pianista croato a Torino in occasione di Mito Settembre Musica avviene all’insegna di un variegato programma dove Chopin e Sibelius si intrecciano con una visione decisamente personale di Schumann

TORINO, 11 settembre 2023 - Ivo Pogorelich è destinato a non lasciare mai indifferenti. Si può discutere, ed è bene farlo, circa il suo approccio a pezzi della grande tradizione con un’originalità che sconfina sovente nell’eccentricità, ma nessuno d’altronde può negare la carica visionaria che soprassiede a ogni sua interpretazione. Il recital per Mito Settembre Musica conferma appieno il paradigma. Chi, come il sottoscritto, è arrivato con un certo anticipo, ha potuto osservare il solista, in maglietta e scarpe da ginnastica, intento a provare in modo ossessivo alcuni passaggi del successivo Schumann in programma, insieme a un enigmatico Prokofiev che invece rimarrà escluso anche dai bis, mentre la sala del Conservatorio Verdi si riempiva poco a poco fino al tutto esaurito. Se nella serata di due anni fa, ospite sempre della rassegna, Pogorelich aveva affrontato Schubert e Chopin con delicatezza quasi intimista, la sua ultima apparizione rovescia l’approccio. Si inizia ancora nel nome dell’amato polacco, con la sfuggente bellezza del Preludio in do diesis minore op. 45, aggiunta tardiva a una forma dove Chopin, con l’opera 28, aveva eretto un monumento aere perennius difficilmente superabile. Il mistero della breve pagina, affrontata con una limpidezza in punta di dita, lascia subito spazio al piatto forte: gli Studi sinfonici op. 13 di Robert Schumann. La scelta comprende, oltre alle dodici variazioni che costituiscono la partitura ‘standard’, le cinque variazioni postume, prima comprese nella raccolta e poi espunte dallo stesso autore; nel caso specifico inserite subito dopo il tema principale preso a prestito dal barone Von Fricken, compositore dilettante.

La lettura del pianista croato è caratterizzata da un’elasticità di tempo continua, abbinata alla decisione di effettuare tutti i ritornelli dal primo all’ultimo, che portano la durata del brano a 45 minuti buoni in confronto a una media delle esecuzioni di poco superiore alla mezz’ora. La libertà agogica delle prime variazioni, con le indicazioni in Allegro dilatate fino a sfiorare l’Andante cede invece spazio, nella quinta della serie (Moderato) a una sognante rêverie accarezzata con tocco ultraterreno nella luminosa figurazione discendente di re bemolle maggiore, impregnata di delicata poesia. Dopo la parentesi idillica, ecco scatenarsi la tempesta. Le rimanenti variazioni, indicate come Studi (da cui il titolo) sono improntate, nella visione di Pogorelich, a una bellicosità inedita e spiazzante per quest’opera. Impossibile fare paragoni. A onore del protagonista va riconosciuto uno sfoggio di brillante, continuo virtuosismo che non mostra un solo istante di cedimento o stanchezza. Sarebbe però vano ricercare le mezze tinte, i giochi di luce e ombra, spazzati dal vento impetuoso di un forte e un fortissimo costante e senza tregua. Alcuni passaggi diventano quasi irriconoscibili, in una pagina tanto celebre, ma disvelano sorprendenti, insospettate parentele. Non Liszt, cui potrebbe far pensare la continua girandola di ottave staccate, di arpeggi e trilli rapidissimi, ma piuttosto Wagner. L’armonia, le progressioni, i colori paiono cartoni preparatori di certi momenti di Tannhäuser, si sprigiona dalla tastiera un inaspettato Venusberg, strisciano i cromatismi degli archi bassi nello Studio numero VII, squillano le trombe non solo nel Finale (Studio XII) ma anche sopra le trionfali cavalcate dei numeri V, IX, X. Schumann non lesina indicazioni temporali in tale direzione: Allegro marcato, Agitato, Sempre marcatissimo, Presto possibile, Allegro con energia, Allegro brillante. La matematica sequenza delle variazioni si trasfigura nell’evocazione di Lohengrin, quello del Morgenröte, dello sfolgorante preludio del terzo atto. Pogorelich invera in maniera inequivocabile il termine ‘sinfonico’. Gli anni sono quelli, appena posteriori, tra le magiche consonanze sotterranee dell’irripetibile generazione romantica.

L’applauso scatta con ferocia erotica, il pubblico soggiogato da una femme fatale. Ma l’incantesimo non termina. Viene il momento della trascrizione per pianoforte dell’autore del celebre Valse triste op. 44 n. 1 di Jean Sibelius. Il timbro riprende centralità con le dita che dipingono la sottile trama di accelerazioni e decelerazioni attraverso una danza di conturbante bellezza ed esattezza, coniugando il dolore inconsolabile con la chimera dell’illusione. Sorpresa finale, due bis e quasi un altro concerto. Chopin, nume tutelare di Pogorelich. Il Preludio op. 45 è ormai un ricordo. Vengono messi sul tappeto la Barcarola op. 60 e il Notturno op. 62 n. 2, accoppiata che sotto i titoli in apparenza innocui nasconde due poemi. Si ritorna forse alla dimensione più congeniale all’esecutore, a un senso della misura meditato, illuminato da tratti screziati, capaci di tradurre in un gesto sincero, diretto ed emozionante, l’acquaticità della Barcarola e le turbate confessioni del Notturno, tra gli estremi esiti dell’ultimo Chopin. Tra il pubblico, entusiasmo e domanda pesano in egual misura sui piatti della bilancia di un concerto difficile da scordare.


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