Odissea di pensieri
di Roberta Pedrotti
Anche quest'anno il festival dei Concerts d'Automne a Tours si rivela un'occasione ricchissima di spunti di riflessione fra polifonie rinascimentali, opera veneziana del Seicento e sonorità pianistiche da riscoprire.
TOURS, 13, 14 e 15 ottobre 2023 - A cosa dovrebbe servire un Festival se non, in fin dei conti, a pensare. A mettersi in discussione, riflettere, discutere, consolidare o trasformare il proprio punto di vista, arricchirsi e tornare a casa diversi da come si era partiti. Di questo in molto – lo vediamo non di rado anche in Italia – sembrano dimenticarsi, preferendo l'accezione di gioiosa fiera, di vetrina scintillante.
Se lo ricordano invece molto bene i Concerts d'Automne di Tours, sebbene tutto sia confezionato così bene da concedere anche il gusto gioioso. D'altra parte, sulle rive della Loira si sta bene, anzi, si rischia di essere sedotti dalla cittadina universitaria fitta di locali multietnici, di vestigia medievali e grandeur ottocentesca. Un luogo che sembra fatto apposta per stimolare sensi e pensieri e raccogliere un ventaglio di varie e raffinate ricerche musicali.
Parles moi d'amour. L'invenzione dello spazio
Il festival si apre ufficialmente venerdì 13 ottobre, nella chiesa di Saint Julien, uno scrigno gotico difficilmente visitabile altrimenti e che si trova a essere il perfetto corrispettivo architettonico fisico delle architetture sonore in programma. Come, infatti, archi rampanti, vetrate immense, fasci di colonne affusolate sembrano sfidare ogni legge fisica e, per vincerla, inventano nuove arditissime bellezze, così le polifonie di Josquin Desprez, Nicolas Gombert e Orlando di Lasso (anzi, Oltralpe Roland de Lassus) scardinano ogni possibile convenzione, sperimentano con insuperata audacia la regola per modellare, nella molteplicità delle voci, ogni sfaccettatura poetica del testo. Gli undici elementi dell'Ensemble Jacques Moderne diretto da Joël Suhubiette (suo anche il coro Les Elements, ben noto a chi abbia un po' di dimestichezza con l'ambiente musicale francofono) non sono solo impeccabili per intonazione e precisione negli intarsi a cappella, ma lasciano ammutoliti per la chiarezza dell'articolazione dei versi in latino e francese antico, per l'intensità e l'intelligenza con cui ne restituiscono il senso. Prendono così forma fisica, tangibile il significato e l'espressione della raccolta poetica ben assortita fra pezzi sacri tratti dal sublime e sensualissimo Cantico dei cantici e altri profani dal miglior Rinascimento letterario francese, Ronsard in testa. Il movimento delle linee delle diverse voci su carta, degli intervalli verticali che di stringono e si allargano, stridono o si accarezzano si percepisce quasi fisicamente, anche nell'alternanza degli organici e nella diversa disposizione dei cantanti. Impossibile non citare la meraviglia di Hola Caron di Roland/Orlando su versi di Olivier de Magny, con doppio schieramento di voci maschili, quattro a sinistra e quattro dirimpetto a destra in una sorta di battaglia in cui la distinzione solistica non pregiudica mai la perfetta coesione di un unico organismo. Passa così un'ora che non si vorrebbe finisse mai, eppure è densa come mille, moltiplicata in quel prisma rifrangente che è la scrittura polifonica nella sua più alta espressione.
Il trionfo di Ulisse in patria. Riso omerico
Il 14 ottobre, al Grand Théâtre, ci si propone un altro sguardo obliquo. Prosegue il ciclo monteverdiano del gruppo I Gemelli intrapreso due anni fa con Orfeo. Ora è la volta del Ritorno di Ulisse in patria, e Mathilde Etienne in veste di regista (ma anche in scena nei panni di Melanto) ci stupisce impostando l'azione nel registro della commedia. Non solo, dunque, i Proci possono apparire caricaturali, non solo Iro è grottesco, ma perfino il saggio Eumete (Eumeo nel poema) da emblema della saggezza semplice e pastorale diventa una figura un po' ingenua e impacciata, dai risvolti inaspettatamente comici. Perfino il travestimento di Ulisse come vecchio mendicante ha un tratto decisamente buffo, né sembra volerci commuovere l'attesa di Penelope. Insomma, una prospettiva un po' spiazzante, ma che ci spinge a riflettere sulle possibili chiavi di lettura del mito, oltre che sul nostro approccio a diversi registri espressivi e alla loro commistione, sulle strade per rivivere e interpretare opere e drammaturgie del passato. Peraltro, la serata scorre piacevolissima e senza un calo di tensione, sia perché la mise en espace minimalista ha una leggerezza che non stucca, sia perché il cast e l'esecuzione musicale sono di prim'ordine. In particolare si apprezzano gli interpreti maschili, a partire dall'Ulisse plastico nell'emissione e nella declamazione di Emiliano Gonzalez Toro, l'altro “gemello” responsabile anche della concertazione. E qui, oltre alla buona resa strumentale e all'abile definizione timbrica, va lodata la coerenza di un fraseggio è insieme rigoroso e fluido, con la dichiarata volontà di associare il tactus, la scansione del tempo, al ritmo del battito cardiaco che muta in base all'emozione e alla situazione.
Sempre in ambito tenorile, si fa apprezzare, e molto, il Telemaco dal timbro apollineo di Zachary Wilder, ma non è da meno Juan Sancho come Giove e Anfinomo, né l'Eumete di Nicholas Scott o l'Eurimaco di Alvaro Zambrano. Il baritono Fulvio Bettini è Iro d'incisiva idiomaticità e sono notevoli anche i bassi Nicolas Brooymans (Antinoo e Tempo) e Christian Immler (Nettuno). Il controtenore Anders Dahlin è un Pisandro di insinuante teatralità e David Hansen un'Umana Fragilità dal canto sensibilissimo.
Fra le donne spicca la Penelope di Fleur Barron, voce di vero contralto, simile a un manto di seta nera, cui solo si consiglia di curare maggiormente la dizione e la pronuncia: sarebbe un peccato che tali mezzi e tanta eleganza nel porgere restassero penalizzati da un italiano ancora poco intellegibile. Quello della cura della parola è un consiglio che ci sentiamo, però, di estendere anche alle altre voci femminili del cast, nello specifico Mayan Goldenfeld (Minerva/Fortuna), Lysa Menu (Amore/Giunone) e Alix le Saux (Ericlea).
Chopin, l'apothéose du piano romantique. La voce dello strumento.
Il terzo e ultimo appuntamento di questo primo weekend dei Concerts d'Automne, domenica 15 ottobre, si sdoppia in due concerti, mattina e pomeriggio e, dopo la fisicità poetica della polifonia e le diverse prospettive del mito, ci porta a riflettere sull'importanza determinante dello strumento come oggetto materiale. Un pianoforte Pleyel del 1839 sta al centro della scena. È lo stesso usato e amato da Rossini, da Bellini, da Chopin e proprio intorno a Chopin verte il programma, che ci porta subito a riscoprire pagine anche arcinote in una nuova luce, quella di una sonorità morbida, delicata, leggermente nasale, non omogeneo in tutta la gamma, né versato al tipo di legato cui ci hanno abituati i pianoforti più recenti. Quasi vocale, tant'è vero che ascoltandolo dal vivo non si può non ripensare a Rossini che a Passy, con un Pleyel in tutto simile a questo, citava Petrarca rimpiangendo l'antico “cantar che nell'anima si sente”. Difatti, basta ascoltare l'Andante spianato e Grande polonaise per avvertire la differenza rispetto all'esplosione pirotecnica cui un moderno grancoda sembra condurre inevitabilmente gli interpreti anche più accorti; qui la dinamica è per forza di cose più contenuta, si calibrano altri pesi e altre nuances, si sente una musica che raramente si percepisce.
Vardan Mamikonian è, poi, davvero eccellente nel valorizzare le peculiarità dello strumento e le differenze fra il Pleyel utilizzato per Chopin e il tre quarti coda moderno che lo sostituisce in scena per Bach trascritto da Busoni e Liszt (oltre che per i bis, fra cui una ipervirtuosistica trascrizione della Danza delle spade di Chačaturjan), a marcare la distanza fisica e sostanziale fra due diverse civiltà pianistiche, l'importanza non solo del pianista, ma anche del pianoforte.
La differenza del tocco, peraltro, verrà ben esplicitata dal secondo concerto, in cui vedremo sedere al Pleyel Florent Albrecht, impegnato in un'alternanza quasi senza soluzione di continuità, di Notturni di John Field, l'inventore del genere, e di Chopin, il suo più emblematico esponente. In questo caso, la luce azzurrina del palco si punteggia della luce di candele, quasi a dar forma ancora una volta visiva all'idea del Notturno. La luce, nei colori che conferisce al palco e perfino nell'inchino che rivolge al pubblico, è, d'altra parte, una protagonista extramusicale ma non troppo del festival. Poi, c'è la convivialità e la gioia del palato e affinché nessun senso si senta solo, questi due concerti domenicali sono preceduti da una bella colazione offerta a tutto il pubblico e, per chi vuole, anche dalla possibilità di un brunch in teatro fra i due programmi. Un godimento, sì, ma che è tale proprio perché si accompagna al pensiero e ci fa rientrare non gonfi come Iro, ma arricchiti come Ulisse dopo le esperienze del suo lungo viaggio.