Realizzare l'Ideale
di Roberta Pedrotti
Torna sulle scene al Comunale di Bologna il Guillaume Tell firmato nel 2013 a Pesaro da Graham Vick e Michele Mariotti e, se possibile, lo fa con ancor più forza e profondità, spettacolo perfetto, di suprema intelligenza nel dar vita al senso più autentico della lotta per la libertà, dell'aspirazione dall'Utopia per portare l'Ideale nel Reale. Strepitoso il debutto di Carlos Alvarez nei panni del protagonista e anima dell'intera produzione.
Pesaro, Guillaume Tell, 11/08/2013
Torino, Guglielmo Tell, 11/05/2014
Bologna, 8 ottobre 2014 - A Pesaro con Vick e Mariotti, a Torino con Vick e Noseda, a Bologna ancora con Vick e Mariotti. È la terza volta che questo Guillaume Tell va in scena, la seconda con il medesimo direttore, e, salvo alcune ricorrenze, con tre compagnie differenti. Tre proposte non riescono, tuttavia, a esaurire la profondità e l'intelligenza di uno spettacolo che rinasce ogni volta come la prima e rinnova una riflessione che si rivela sempre più ricca, puntuale, acuta e attuale. Eterna come l'Utopia, forte come l'Idea che la informa e fa dell'Arte la dimensione in cui possa prendere realizzarsi e farsi monito per perseguire il cammino verso un futuro più giusto, verso una società migliore inseguendo l'inafferrabile ideale. Il teatro parla al nostro mondo del nostro mondo, come deve essere per aver forza e significato e non ridursi a trastullo e passatempo senza storia né meta; tutto viene dal testo, da un libretto e da una partitura che Vick e Mariotti hanno scandagliato in tale profondità da darci l'impressione di aver detto in questo spettacolo tutto quel che si può dire sul Guillaume Tell, lasciandoci a ogni recita, a ogni ripresa l'occasione di esplorare e scoprire nuovi meandri di questo universo inesauribile, ma tutto in nuce qui, davanti a noi.
Il sipario scandisce gli atti della rivoluzione: dallo status quo di sottomissione alla miccia accesa dalla violenta protevia dei soldati, dalla devastazione del villaggio e dall'assassinio di Melchtal, alla presa di coscienza e al giuramento del popolo dei tre cantoni contro i padroni (sì, il libretto dice chiaramente “injustes maîtres”), il cuore del potere che finge di non vedere e, anzi, accresce la sua tracotanza fino al limite estremo, che segna il punto di non ritorno, la rivoluzione, che non termina con la fine della tirannia, ma apre il difficile quanto luminoso cammino verso un avvenire più giusto. Senza drammatizzazioni inutili, solo con l'emblema del pugno orgoglioso che si leva di fronte all'oppressione e alla negazione dei diritti e con la bacchetta di Mariotti, la parabola di Guillaume Tell si riverbera già nell'ouverture, mai così eloquente nel trascorrere dal canto doloroso del violoncello al primo fremere della tempesta, dall'istante di stupito idillio all'impeto inesauribile di un cammino di giustizia, libertà, dignità. Questa è la sintesi del capolavoro che si dispiega per i quattro atti della coscienza di una classe e di un popolo che conquistano la propria identità e dignità per intraprendere un nuovo cammino senza più classi e popoli, ma come libera umanità. L'umanità che ritrova la Natura liberandosi dal mondo asettico dove è costretta incessantemente china all'opera di annullamento della terra, dove i cavalli dei padroni sono fantocci e le montagne cartoline, dove la tradizione è folklore per lo svago paternalistico dei potenti. L'umanità in cui Tell combatte per il futuro del figlio e Arnold, mosso dalla volontà di vendicare il padre, ne comprende infine l'eredità spirituale. E l'umanità in cui la coscienza e la speranza non sono scintille riservate all'animo degli oppressi, ma risplendono anche in Mathilde. La vediamo provenire dalla classe dei padroni, ragionare da padrona, suggerire nella carriera militare al loro servizio la via più naturale alla realizzazione, e poi sconvolta dall'omicidio di Melchtal non ha forza di reagire se non con la rinuncia; quando, però, l'estremo tentativo di trattare ragionevolmente con Gesler per la vita di Jemmy la mette di fronte alla barbarie del tiranno, leva il pugno e si unisce all'anatema popolare, intraprende un cammino personale che la vedrà elevarsi verso la libertà dopo aver constatato insensatezza dei suoi privilegi di classe.
Ciascuno è simbolo e individuo, ogni personaggio ha dignità e cura e lo si vede ancor più in un teatro intimo come il Comunale, dove possiamo apprezzare ancor più il minimo gesto, il minimo sguardo, il perfetto lavoro collettivo in cui ogni artista del coro, ogni figurante, ogni danzatore, ogni solista ha un ruolo fondamentale e insostituibile. Più di mille parole, in questi giorni, valgono spettacoli come questo e ancor più apprezziamo la scelta di coinvolgere anche l'orchestra e le maestranze dietro le quinte negli applausi finali. Non una scelta retorica, ma la naturale conclusione di questo Guillaume Tell, resa ancor più significativa dalle coincidenze dell'attualità. Il debutto di Carlos Alvarez nel ruolo del titolo era quello che, consapevoli o meno, attendevamo da anni: l'epifania di Tell, la cui statura etica e morale esemplare si staglia con un'umanità che sarebbe difficile incarnare con altrettanta verità. Avevamo già visto declinare la vocazione politica di Tell dal suo ruolo di buon padre di famiglia in diverse, anche splendide sfumature, ma qui, complice Vick, la complessità e la maturità dell'eroe elvetico hanno dato vita a un modello ideale quanto concreto, uno sprone che sembra guardarci negli occhi a uno a uno e invitarci a prendere in mano la nostra vita e costruire un futuro migliore. È un uomo del popolo, un uomo semplice, forse, ma intelligente, informato, colto consapevole. Ha una lucida coscienza politica e ha un figlio, attraverso i suoi occhi scruta il futuro e decide di trasformare il pensiero in azione, di cambiare il mondo dopo averlo amaramente osservato. “Je suis Guillaume Tell encore!”, afferma, e colpendo la mela infrange definitivamente ogni catena al cammino per la libertà. L'identità è la risoluzione alla realizzazione dell'utopia, alla tensione verso la scala luminosa che finalmente si apre al popolo, che prima chino nel lavoro, alza la testa, il pugno e guarda all'avvenire. Il Tell di Alvarez è un Uomo, un padre, un lavoratore, una coscienza politica che è quella del singolo, ma anche di un intero popolo che, di scena in scena, matura la consapevolezza della propria forza e della propria dignità, impara a organizzarsi e a conquistare i propri diritti. L'Idea è espressa nell'Arte, e in questo caso dallo stile più raffinato, dal fraseggio più eloquente, dal timbro più virile e incisivo, dall'emissione più salda e fluida, dal canto più suadente e intelligente, dallo sguardo e dall'azione più carismatici e penetranti che si possano desiderare.
Da Pesaro ritroviamo, invece, il Rodolphe, qui favorito dall'acustica migliore, di Alessandro Luciano e il Walther di Simon Orfila, che abbiamo trovato più timbrato e convincente sotto il profilo vocale, oltre che sempre encomiabile nella resa teatrale. Se fosse, poi, possibile trovare lodi nuove e bastanti per la perfetta identificazione di Simone Alberghini con Melchtal e di Luca Tittoto con Gesler lo faremmo con entusiasmo, ma non possiamo far altro che ribadire quanto già detto in precedenti occasioni e constatare come risulti ormai difficile anche solo immaginare questi ruoli con altri volti e altre voci. Nuovo è Giorgio Misseri, che non solo svetta con morbida luminosità nel canto del pescatore, ma ha anche l'aspetto ideale per il giovane svizzero scelto come attore per il sollazzo dei padroni, sospeso fra due mondi con il cuore nel suo popolo. Nuovo è soprattutto Michael Spyres, che aveva già comunque affrontato con successo all'estero in più occasioni la parte di Arnold. Non potendo esibire l'effetto elettrizzante di un canto sbalzato fra gli estremi della tessitura, con le sue peculiari inflessioni baritonali, ha fatto valere l'elegante comunicativa del fraseggio, l'ampiezza dell'accento e del cantabile, la pastosità virile del timbro senza problemi di tessitura. Qualche sparsa opacità e qualche acuto meno penetrante del solito - anche i tenori più spettacolari possono avere qualche momento d'umanità - non ha inficiato una prova d'altissimo livello artistico e musicale.
Merita, infine, fra le voci maschili una menzione speciale la presenza notevole per l'inusuale vigore teatrale e vocale di Marco Filippo Romano come Leuthold e Chasseur. Fra le signore 'impegno maggiore era riservato a Yolanda Auyanet, che ha sposato con devozione la causa di una Mathilde che Vick e Mariotti rendono finalmente donna in evoluzione, progressivamente sempre più consapevole del mondo e padrona del proprio destino. Dalla sua il soprano ha, se non i crismi della fuoriclasse, la garbata disinvoltura belcantista della scuola latina e momenti di dolce lirismo. Viceversa l'acuto potrebbe essere ingentilito, così come le emissioni nelle varie gradazioni del Forte, anche per una gestione del fiato non sempre infallibile. Senza farsi ricordare come Mathilde storica, il suo sensibile professionismo merita franchi consensi. Notevoli sono poi i mezzi dell'altro soprano in locandina, Mariangela Sicilia, vocalità sana, lucente e svettante che purtroppo non abbiamo potuto misurare nella prova della sacrificata aria di Jemmy (tributo sancito già alla prima da Rossini là dove non ci sia un Festival a perseguire l'integralità senza dover temere le lancette dell'orologio), ma che ha saputo dare un prezioso contributo a ogni concertato, delineando quello che non è semplicemente la vittima sacrificale dell'atroce prova della mela, ma un cardine della drammaturgia, quella futura umanità cui Tell consacra la sua lotta. È, infine, un piacere ritrovare Enkeleida Shkoza in una sorta di ritorno a casa dopo i suoi esordi, giovanissima (e con la grafia Enkelejda Shkosa) proprio al Rossini Opera Festival: il gusto delle radici è evidente nell'emissione sempre sorvegliata e nell'accento partecipe della sua Hedwige.
Questi i solisti, con i quali ribadiamo ogni possibile elogio per il Coro del Comunale, che ripete la prova dell'estate 2013 con il vantaggio dello spazio più raccolto e dell'acustica che ci permette di godere anche di una concertazione se possibile ancor più curata e raffinata da parte di Michele Mariotti (il finale secondo, con Alvarez, Spyres, Crfila e il coro è parso davvero scritto da Dio) e dell'intensità attoriale formidabile di tutti i figuranti e tersicorei. Alla fine ci spiace che, essendo Graham Vick pienamente assorbito dal Don Giovanni con i giovani dell'AsLiCo in tournée, nessun responsabile della messa in scena si sia presentato alla ribalta, per un successo finale felicemente pieno e convinto per tutti già alla prima. Rendiamo loro onore citando con gratitudine Lorenzo Nencini per la ripresa della regia, il coreografo Ron Howell (mai abbastanza lodato per il suo lavoro in questa produzione) e la sua assistente Virginia Spallarossa, lo scenografo e costumista Paul Brown, Fiamma Baldiserri e Marco Alba per la ripresa delle luci di Giuseppe Di Iorio. E quando si esce dal teatro già si sente nostalgia di questo Guillaume Tell, del mondo dell'Ideale, misto a una strana, nuova ebrezza nel guardare al Reale.
foto Rocco Casaluci