À la guerre comme à la guerre
di Alberto Ponti
Dmitry Matvienko, giovane direttore originario di Minsk, esordisce alla guida dell'Orchestra Sinfonica Nazionale con la monumentale Ottava di Šostakovič.
Sarà stata l'attesa per Riccardo Muti impegnato in città la sera successiva con la Chicago Symphony a dirigere tra gli altri Philip Glass (!), sarà stata la concomitante prima del Don Pasquale al vicino Teatro Regio, sarà stata la foschia fuori Torino che ha scoraggiato gli appassionati del circondario a mettersi in viaggio verso il centro, fatto sta che il pubblico di giovedì 25 gennaio all'auditorium Toscanini non era, da un punto di vista numerico, quello delle grandi occasioni. Peccato, perché il programma, occupato in gran parte da un'unica estesa composizione, si prospettava assai ghiotto. Per onorare l'imminente ricorrenza del 'Giorno della memoria' quest'anno si è optato per due brevi tempi (nell'ordine prima il terzo, Abîmes des oiseaux, per clarinetto solo, poi il secondo, Vocalise) del Quatuor pour la fin du Temps di Olivier Messiaen, preceduti dalla lettura della poesia 'La fine e l'inizio' di Wislawa Szymborska con Marta Cortellazzo Wiel come voce recitante. Interpreti del lavoro, nato in circostanze drammatiche nel 1940 all'interno del lager di Görlitz in Slesia dove l'autore si trovava in veste di prigioniero di guerra, sono state quattro prime parti dell'Orchestra Sinfonica Nazionale: al violino Roberto Ranfaldi, al clarinetto Enrico Maria Baroni, al violoncello Pierpaolo Toso e al pianoforte Andrea Rebaudengo. Giustificava l'estratto, eseguito con tangibile emozione nel buio quasi totale della sala, il fatto che il quartetto nella sua interezza fosse destinato a essere presentato pochi giorni dopo per il primo appuntamento della rassegna 'Le domeniche dell'Auditorium'.
Pezzo forte del concerto era la Sinfonia n. 8 in do minore op. 65 (1943) di Dmitrij Šostakovič, figlia anch'essa degli anni drammatici dell'ultimo conflitto mondiale e per questo nota talvolta anche con l'appellativo apocrifo di Sinfonia di Stalingrado o addirittura di Sinfonia della vittoria non tanto perché in Russia, e soprattutto a Stalingrado, nel 1943 le cose andassero per il meglio quanto forse per il fatto che la resa dei tedeschi lungo il Volga appariva uno dei tangibili segni dell'inversione di tendenza tra le forze dominanti che avrebbe condizionato l'esito del conflitto. Sono soprannomi che si possono senza problemi dimenticare, dal momento che l'opera, nonostante le enormi proporzioni e il notevole organico richiesto, non presenta alcun passo particolarmente 'vittorioso', come accade in altri titoli dello stesso compositore, ma abbonda invece di episodi di forte drammaticità. Da tale punto di vista si può assimilare, non solo per la comune tonalità di impianto, alla Quarta, che non a caso costituisce insieme all'Ottava il vertice della produzione sinfonica diŠostakovič. À la guerre comme à la guerre, dunque, ed importa che il morale, fiaccato dalla tragedia, non sia così a terra da non lasciare intravedere la luce in fondo al tunnel; il finale, pacificato ma non trionfale, potrebbe suggerire proprio questa chiave di lettura, con un sottile parallelismo con la vicenda umana dell'autore, spesso costretto a dissimulare la sua inventiva dietro una forma che non urtasse troppo l'avversione alla modernità del regime sovietico.
Chiamato a dirigere l'immensa partitura è il bielorusso Dmitry Matvienko, classe 1990, al debutto sul podio dell'OSN Rai. Il giovane musicista conosce senza dubbio il fatto suo, riuscendo a plasmare dagli archi, dai quali prende avvio l'esteso primo movimento Adagio-Allegro non troppo, un suono denso, pregnante, ricco di sfumature, a tratti ruvido ma con una elevata componente teatrale anche nei momenti in cui la scrittura diventa rarefatta ai limiti del silenzio. Viceversa, quando il tessuto espressivo si ispessisce nella parte centrale del pezzo con un climax apocalittico introdotto dal sibilo dei fiati nel registro acuto e dall'urlo degli ottoni, seguito dal selvaggio scatenarsi di timpani, tamburi e piatti prima di estinguersi nella melopea di un corno inglese dopo una serie di impressionanti staffilate di tutta l'orchestra, Matvienko pare cedere alla tentazione di un'esuberanza eccessiva, alla ricerca dell'effetto speciale e della massima potenza, traendo dagli strumenti un volume eccezionale ma un po' sopra le righe nello sviluppo narrativo del lavoro. Più controllato ma graffiante quanto basta, tanto da portare a qualche salterello a piedi uniti sul podio, è il tratto prescelto per condurre il seguente Allegretto e poi ancora l'Allegro non troppo, col celebre assolo militaresco di tromba, staccato a un tempo giusto, vagamente danzante, collegato senza soluzione di continuità all'intenso Largo, una sorta di passacaglia, dove gli esiti direttoriali sono assai felici nel ricreare un'atmosfera di desolata ma fremente attesa. Pure nell'enigmatico Allegretto conclusivo, con i conflitti iniziali ricomposti in una visione di maggior distacco ed economia di mezzi, il carattere di Matvienko emerge rifuggendo le facili letture e tratteggiando invece, con gesto raccolto e dinamiche meno spettacolari eppure efficaci l'aspirazione a una superiore, e tutta interiore, felicità. Il significato del giorno della memoria si concretizza nel superamento della tragedia attraverso un sollievo velato di tristezza.
Un'esecuzione non perfetta ma interessante, ricca di idee giovanili e un po' temerarie, assecondate dall'alto livello di un'orchestra che, nel repertorio tra Otto e Novecento, si conferma tra le eccellenti del nostro paese, premiata dalla platea che richiama alla ribalta per ben cinque volte il maestro.